Il concetto di “contenuto costruito” di cui parla Martin Scorsese non riguarda solo il cinema

Siamo di fronte a un’importante mutazione che riguarda non semplicemente l’aspetto delle opere, cioè come esse si presentano agli spettatori, ma proprio la loro natura. Lo dice anche il grande regista di Taxi Driver e Casinò

Martin Scorsese, alla vigilia dell’uscita nelle sale del suo nuovo film Killers of the Flower Moon, si scaglia nuovamente contro l’industria cinematografica contemporanea e in particolare i film di supereroi (definiti nel 2019 ‘film-luna park’). E, nel farlo, s’inventa una definizione particolarmente azzeccata e che dà parecchio da pensare: “I do think that the manufactured content isn’t really cinema” (Ryan O’Rourke, Martin Scorsese Calls for Cinema to Be Saved from Manufactured Content, “Collider”, 25 settembre 2023). Bum. 

Il contenuto confezionato secondo Scorsese

Quindi, intanto ritorniamo al famoso/famigerato ‘contenuto’, che qui si arricchisce di una qualità non trascurabile: manufactured va reso infatti non letteralmente come ‘manufatto’, ma piuttosto come ‘costruito’, e meglio ancora ‘confezionato’. Contenuto confezionato. E per chi? Per lo spettatore, e per quello spettatore che non guarda quel contenuto in sala ma sulla piattaforma digitale, comodamente seduto o sdraiato sul divano di casa sua. 
Inoltre, Scorsese ci informa che il manufactured content non è davvero cinema: è qualcosa che gli assomiglia parecchio, ma non lo è. È molto facile liquidare una posizione del genere (che è anche quella di altri grandi maestri del cinema che si sono espressi di recente in modo simile, come Francis Ford Coppola) come antiquata, passatista, idealistica, ecc. ecc. 

Scorsese in Hugo Cabret
Scorsese in Hugo Cabret

Cinema, contenuti e Intelligenza Artificiale

Ma se in tanti negli ultimi mesi e negli ultimi anni stanno affrontando questo momento e stanno sottolineando la gravità e l’estensione di questo fenomeno, significa che non è così facile ignorarlo, fare finta di niente con un’alzata di spalle. Scorsese chiarisce che cosa intende proseguendo così nella sua dichiarazione: “It’s manufactured content. It’s almost like AI making a film. And that doesn’t mean that you don’t have incredible directors and special effects people doing beautiful artwork. But what does it mean? What do these films, what will it give you? Aside from a kind of consummation of something and then eliminating it from your mind, your whole body, you know? So what is it giving you?” 
Il manufactured content, il contenuto confezionato che è il blockbuster di supereroi non solo non è davvero cinema, ma sembra già di fatto realizzato dall’intelligenza artificiale. Non c’è neanche bisogno che ci si arrivi compiutamente dal punto di vista tecnologico, perché da quello stilistico e narrativo già ci siamo. Siamo già lì. 
Il discrimine sta in ciò che questi film ti danno, al di là di un consumo facile, superficiale, dell’ingestione e della digestione di qualcosa che viene facilmente eliminato, espulso un attimo dopo. Senza lasciarci nulla.

Martin Scorsese, The Age of Innocence (1993)
Martin Scorsese, The Age of Innocence (1993)

Il contenuto costruito in altri settori culturali

Ovviamente, questo tipo di esperienza non si limita al cinema ma, come sempre, si estende a tutti i territori culturali (nel cinema è tutto più evidente e chiassoso grazie alle dinamiche produttive e distributive, alla loro trasformazione e al loro impatto sulla concezione e sulla realizzazione dell’oggetto-film, come peraltro dimostra il recentissimo sciopero degli sceneggiatori e degli attori di Hollywood, il più lungo e imponente degli ultimi sessant’anni). Riguarda quindi anche la letteratura, la musica, il design e… l’arte contemporanea. La differenza è quella che corre tra esperienza profonda e consumo distratto. E il rischio, non futuro ma già presente, è quello individuato da Scorsese: “The danger there is what it’s doing to our culture. Because there are going to be generations now that think movies are only those—that’s what movies are”. Il rischio è che intere generazioni pensino (per tutta la vita) che quello e solo quello sia ciò che i film sono – e che possono essere. 
Che quello e solo quello sia ciò che le opere d’arte sono – e che possono essere. E non vediamo tutti i giorni opere che assomigliano da vicino ai filmoni con i supereroi? Opere roboanti, affette da gigantismo, prepotenti, costosissime e inutili? È chiaro, dunque, come diventi sempre più difficile negare che siamo di fronte a un’importante mutazione che riguarda non semplicemente l’aspetto delle opere, cioè come esse si presentano agli spettatori, ma proprio la loro natura, il modo stesso in cui funzionano. Ciò che esse chiedono agli spettatori, e ciò che noi spettatori chiediamo ad esse. 
Quello che lamenta il ‘vecchio’ Scorsese è niente di meno della scomparsa di un intero mondo, di un orizzonte artistico e culturale, e la riduzione, la restrizione a una velocità impressionante delle possibilità stesse di azione a disposizione di un film, e quindi di un’opera. La scomparsa anche di un intero pubblico, a livello globale, in grado anche solo di comprendere che la posta in gioco è proprio la sopravvivenza stessa di questi orizzonti, e di queste possibilità.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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