L’arte rotta (XII). Quando tutto sarà finito

È difficile pensare che, al termine dell’emergenza, tutto tornerà come prima. Che cosa succederà all’opera d’arte?

Un’opera d’arte che si comporta e funziona un po’ come un’edicola votiva – così si concludeva la puntata precedente di questa serie.
Personalmente, non apprezzo granché chi, anche in questo momento, liquida l’intera faccenda che ci sta investendo, anche dal punto di vista dell’arte contemporanea, con un “sarà tutto uguale a prima, solo un po’ peggio”, e così via. Questo cinismo mi sembra abbastanza inutile, anche perché è esattamente il tipo di atteggiamento che appartiene al passato e che adesso appare completamente fuori registro. Se c’è una cosa che il virus ci sta insegnando è proprio che saltano tutte le certezze, che improvvisamente le condizioni possono cambiare e cambiano, e ciò che un attimo prima ritenevamo immutabile non lo è più. Come giustamente ci avverte Slavoj Žižek in una recente intervista, uno degli effetti dell’attuale situazione sarà il non dare più per scontate molte cose, il fare un passo indietro e fermarsi a riflettere.
Forse, quindi, vale la pena di cogliere l’occasione di immaginare ciò che potrebbe accadere anche dal punto di vista dell’opera d’arte. Del resto, quella che stiamo sperimentando è l’accelerazione straordinaria di cambiamenti che fino a pochissimo fa avremmo considerato impensabili, e al tempo stesso un deciso rallentamento che riguarda tutto quello che dovevamo inseguire, che dovevamo vedere, quello a cui dovevamo assistere. Il tempo: la sua esperienza è in questi giorni strani e difficili centrale, e soprattutto ambigua. Ne abbiamo a disposizione tantissimo, all’apparenza, eppure sembra non bastare mai, e finire in fretta; lo stesso avviene alla concentrazione, che in apparenza avrebbe tutte le condizioni ideali per dispiegarsi e invece si rivela molto labile. Così come ambigua è la coesistenza di due condizioni che fondamentalmente coesistono: l’affanno di dimostrare ancora la nostra efficienza produttiva (anche con strumenti diversissimi), e la sensazione di qualcosa di diverso che si affaccia, ancora misterioso, e che altera presumibilmente i termini di questa stessa efficienza.

CAMBIAMENTO E OPERA D’ARTE

Stiamo cambiando, questo virus sta cambiando noi e il contesto in cui viviamo. Dolorosamente, faticosamente. Perché non dovrebbe accadere lo stesso con l’opera?
Tutto invecchia repentinamente, in questi giorni: e così sembra accadere per alcune certezze a cui si ancoravano le opere d’arte, all’interno di un dato ambiente, prima. Del consumo si è in parte già detto: ma consumo vuol dire anche il modo in cui percepiamo un oggetto, il modo principale, privilegiato in cui lo inseriamo all’interno della nostra interpretazione della realtà. E dunque anche le cose che quell’oggetto – l’opera – può e non può fare.
È evidente che, nel ‘sistema’ (così come esso si è articolato negli ultimi anni), l’opera poteva attirare un’attenzione anche grande su di sé a patto di “stare al suo posto”, di non travalicare i confini del sistema stesso se non per brevi puntate – sempre concesse graziosamente dall’alto – e di comportarsi in maniera tutto sommato educata, addomesticata persino nel “sensazionalismo”. Il patto è, o era: non trasgredire il codice, e se proprio devi uscire prevedi sempre un modo di rientrare dalla finestra, cioè di ritornare a essere “merce”.
Che vuol dire allora un’opera come un’edicola votiva? Beh, per prima cosa l’edicola (un oggetto che esiste in molte confessioni religiose e tradizioni, e che vediamo comparire in aree lontanissime del pianeta) non la puoi comprare: è a disposizione di tutti, è pubblica. Ma in questa sua dimensione pubblica coltiva un rapporto intimo, raccolto, individuale con l’essere umano: una relazione. Inoltre, è caratterizzata da un linguaggio popolare, vernacolare, alla portata di tutti, inclusivo e non esclusivo. Non avrebbe senso infatti per un’edicola escludere, respingere a priori chi ha davanti, anche perché chi ha davanti non è uno spettatore: è al tempo stesso qualcosa di più e qualcosa di meno di uno spettatore, un individuo con determinate esigenze, le quali oltrepassano ciò che siamo abituati a considerare “arte”; e così l’opera in questione è più e meno di un’opera d’arte.

Pamela Diamante, The apocalypse is a revolution (2018), stampa su carta cotone, courtesy l'artista e galleria Gilda Lavia

Pamela Diamante, The apocalypse is a revolution (2018), stampa su carta cotone, courtesy l’artista e galleria Gilda Lavia

L’ALTERNATIVA AL CONSUMO

Questa relazione attiva infatti la dimensione sacra: che – insieme alla capacità dell’arte di trasformare il contesto in cui esiste – è un altro elemento sminuito e rimosso negli ultimi decenni. L’opera che funziona come un’edicola è in grado cioè di modificare lo spazio quotidiano di chi, piuttosto che fruirla, stabilisce con essa un rapporto di questo tipo, un rapporto per sua natura alternativa al consumo.
Poi come al solito – nell’ipotetico dopo dell’emergenza – uno può benissimo dire: “non mi interessa, voglio che tutto torni esattamente come prima”, e che anche per le opere d’arte sia così.

Christian Caliandro

LE PUNTATE PRECEDENTI

L’arte rotta (I)
L’arte rotta (II)
L’arte rotta (III)
L’arte rotta IV
L’arte rotta V
L’arte rotta VI
L’arte rotta VII
L’arte rotta VIII
L’arte rotta IX
L’arte rotta X
L’arte rotta XI

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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