Arte contemporanea, menzogna e pseudorealtà

La verità, nell’arte, è diventata impopolare, mentre la menzogna rassicura. Ma bisogna invertire la rotta e avere il coraggio di inseguire l’instabilità

La verità è al centro dell’opera: se non è più così, se non va più in questo modo, allora l’opera diventa solo un modo per esibirsi ed esibire il suo autore/autrice, per riflettere al massimo su altre opere – del passato, e non (mai) del futuro. La verità significa anche, ovviamente, responsabilità. Quindi: “(…) voglio dirvi che non vi sarà possibile raggiungere grandi vette se orienterete voi stessi verso il pubblico. Non parlo del contatto diretto, ma di un certo tipo di legame, il desiderio di essere acclamato, di guadagnare l’applauso e le parole d’elogio. È impossibile, lavorando in tal modo, creare qualcosa di grande. Le grandi opere sono sempre fonte di conflitto. (…) L’artista dice la verità. Questa verità è quasi sempre differente dalla concezione popolare della verità. Il pubblico non ama essere ossessionato da problemi. È più facile per lo spettatore ritrovare nel dramma ciò che già sa” (Jerzy Grotowski, Il discorso di Skara, in Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970, pp. 274-275).
“Qualcosa di grande”: l’opera deve almeno aspirare a essere qualcosa di grande, altrimenti non è niente. E questa grandezza si può raggiungere sono inseguendo la verità, cioè facendo il contrario dell’orientarsi verso il pubblico. Verso la gratificazione immediata, verso l’applauso. Come scriveva anche Dick alcuni anni dopo ne L’Esegesi, “qualunque linguaggio menzognero crea all’istante in una singola mossa una pseudorealtà, contaminando la realtà, fino a liberare la Menzogna. Nel momento in cui qualcuno mente diventa separato dalla realtà. Ha introdotto la falsificazione lui stesso. C’è una cosa che nessuno può costringerti a fare: mentire. Si mente solo per il proprio profitto. Tutto si basa su una decisione interiore invisibile al mondo. Nessuno ti dice mai: ‘Mentimi.’ Il nemico dice: ‘Tu lo farai e crederai a certe cose.’ Falsificare è una tua decisione, a fronte della sua coercizione” (Philip K. Dick, L’Esegesi, a cura di Pamela Jackson e Jonathan Lethem, Fanucci Editore, Roma 2015, pp. 58-59).
La menzogna, la falsificazione sono scelte, dunque ricadono sotto il medesimo regime di responsabilità – verso se stessi e verso lo spettatore. L’opera come falsificazione, l’opera come menzogna crea “in una singola mossa” una pseudorealtà, e si separa dalla realtà.
L’opera come verità invita lo spettatore ad adottare gli stessi meccanismi, a guardare dentro di sé e ad applicare il medesimo schema alla propria esistenza: l’opera come verità esce istantaneamente dal sistema di produzione e di rappresentazione dell’arte, e si adatta alla vita.

“Si tratta di concentrarsi, in fondo, sulla singolare sensazione di precarietà e di instabilità che l’opera come verità è in grado di sostenere e di veicolare

GLI OBBLIGHI DELL’ARTE CONTEMPORANEA

Lo spettatore intuisce, a livello conscio o inconscio, che tale atto è un invito, rivolto a lui, ad agire in maniera analoga: questo causa spesso opposizione ed indignazione, poiché i nostri sforzi costanti sono tesi a dissimulare la verità che ci concerne, non solo di fronte al mondo, ma anche di fronte a noi stessi; noi tentiamo di evitare la verità su noi stessi: ed ecco che qui, invece, noi siamo invitati a fermarci e ad analizzarci. E noi temiamo di venir tramutati in statue di sale, se ci giriamo, come accadde alla moglie di Lot” (Jerzy Grotowski, op. cit., pp. 45-46).
Cinquanta, sessant’anni fa questo tipo di movimento era chiaro, e può esserlo anche oggi. A patto di riconoscere e di distinguere i territori… Si tratta di concentrarsi, in fondo, sulla singolare sensazione di precarietà e di instabilità che l’opera come verità è in grado di sostenere e di veicolare; il contrario, tutto sommato, di un’intenzione positiva, della chiarezza del dover-essere che ci stringe da tutti i lati. Il fatto, per esempio, che l’arte oggi debba rispondere a determinati valori e istanze, debba rientrare all’interno di un contesto più o meno ufficiale e quindi, in fondo, corrispondere a un’immagine di sé che nella migliore delle ipotesi è antiquata, e nella peggiore è – ancora una volta – una contraffazione, qualcosa che si spaccia per arte ma che è semplicemente, unicamente un contenuto. Il contenuto artistico e culturale, questo orrore contemporaneo, questa strumentalizzazione assoluta, totale, che traduce l’efficienza e l’indifferenza.
È necessario ricorrere ad un linguaggio metaforico, e dire che in questo processo l’elemento determinante è l’umiltà, una predisposizione spirituale: non voler fare una determinata cosa, ma rinunziare a non farla; altrimenti l’eccesso diventerebbe sfrontatezza invece che sacrificio. Ciò significa che l’attore deve agire come in stato di trance” (ivi, p. 46).
Questa “rinuncia” e questo “stato di trance” possono e devono essere ricercati ancora oggi (in condizioni storiche e sociali così mutate), abdicando al “voler essere” e al “dover essere”.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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