Fase Tre (VI). Che cosa rimane

Christian Caliandro torna a parlare del tempo presente, spaziando da Elena Ferrante a Mary Shelley ad Artaud.

Mia madre mi ha lasciato un vocabolo del suo dialetto che usava per dire come si sentiva quando era tirata di qua e di là da impressioni contraddittorie che la laceravano. Diceva che aveva dentro una frantumaglia. La frantumaglia (lei pronunciava frantummàglia) la deprimeva. A volte le dava capogiri, le causava un sapore di ferro in bocca. Era la parola per un malessere non altrimenti definibile, rimandava a una folla di cose eterogenee nella testa, detriti su un’acqua limacciosa del cervello. La frantumaglia era misteriosa, causava atti misteriosi, era all’origine di tutte le sofferenze non riconducibili a una sola evidentissima ragione. (…) La frantumaglia è un paesaggio instabile, una massa aerea o acquatica di rottami all’infinito che si mostra all’io, brutalmente, come la sua vera e unica interiorità. La frantumaglia è il deposito del tempo senza l’ordine di una storia, di un racconto. La frantumaglia è l’effetto del senso di perdita, quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo, un ancoraggio per la nostra vita, andrà a unirsi presto a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere. La frantumaglia è percepire con dolorosissima angoscia da quale folla di eterogenei leviamo, vivendo, la nostra voce e in quale folla di eterogenei essa è destinata a perdersi” (Elena Ferrante, La frantumaglia, Edizioni e/o 2016, pp. 94-95).

Il coltellino di MacGyver di cui parla Valentino è forse l’opera d’arte al tempo della pandemia. In cui vengono meno:

  • Il pubblico
  • L’evento
  • Le relazioni pubbliche
  • Lo spettacolo
  • Il mercato
  • La mostra (come dispositivo: dunque anche la fiera, la biennale, ecc.)
  • Lo spazio istituzionale (il museo)

Che cosa rimane? Rimane un nucleo oscuro e luminoso, radiante, perturbante, che è la radice e l’origine dell’opera, il suo centro sacro (i “ruderi”, le “chiese”, le “pale d’altare” e i “borghi” di Pasolini in 10 giugno 1962). È del resto ciò che intendevo quando a marzo, nella serie L’arte rotta, parlavo di opera d’arte come edicola votiva: “per prima cosa l’edicola (un oggetto che esiste in molte confessioni religiose e tradizioni, e che vediamo comparire in aree lontanissime del pianeta) non la puoi comprare: è a disposizione di tutti, è pubblica. Ma in questa sua dimensione pubblica coltiva un rapporto intimo, raccolto, individuale con l’essere umano: una relazione. Inoltre, è caratterizzata da un linguaggio popolare, vernacolare, alla portata di tutti, inclusivo e non esclusivo. Non avrebbe senso infatti per un’edicola escludere, respingere a priori chi ha davanti, anche perché chi ha davanti non è uno spettatore: è al tempo stesso qualcosa di più e qualcosa di meno di uno spettatore, un individuo con determinate esigenze, le quali oltrepassano ciò che siamo abituati a considerare ‘arte’; e così l’opera in questione è più e meno di un’opera d’arte” (cfr. L’arte rotta (XII). Quando tutto sarà finito, 23 marzo 2020).

Franco Angeli, Aquila, 1964, olio su tela, 120 x 120 cm

Franco Angeli, Aquila, 1964, olio su tela, 120 x 120 cm

È con notevole difficoltà che ricordo la prima epoca della mia esistenza: tutti gli avvenimenti di quel periodo mi appaiono confusi e indistinti. Una strana molteplicità di sensazioni si impossessò di me, e io vidi e sentii, percepii suoni e odori tutto in una volta; e ci volle in verità molto tempo prima che imparassi a distinguere tra le funzioni dei vari sensi. Gradualmente, ricordo, una luce più forte mi stimolò i nervi, così fui costretto a chiudere gli occhi. L’oscurità scese allora su di me e mi spaventò; ma avevo appena avuto questa sensazione, che riaprii gli occhi (come ora capisco) e la luce vi entrò di nuovo a fiotti. (…) Era buio quando mi svegliai; avevo freddo ed ero anche istintivamente un po’ spaventato a trovarmi così solo. Prima di andarmene dal tuo appartamento, sentendo freddo mi ero coperto con degli abiti, ma insufficienti a ripararmi dalla brina notturna. Ero un povero e infelice derelitto; non sapevo e non capivo niente, ma sentendomi invadere dalla pena mi sedetti e piansi” (Mary Shelley, Frankenstein, ossia, Il moderno Prometeo, Mondadori 1992, p. 118).

Ho parlato poc’anzi di pericolo. Ora mi sembra che il modo migliore per realizzare sulla scena l’idea di pericolo sia l’imprevisto oggettivo, l’imprevisto non nelle situazioni ma nelle cose, il passaggio intempestivo, brusco, da un’immagine pensata a un’immagine reale; per esempio che un bestemmiatore veda materializzarsi improvvisamente davanti a sé in forma realistica l’immagine della propria bestemmia (…). Un altro esempio potrebbe essere l’apparizione di un essere inventato, fatto di legno e di stoffa, creato di sana pianta, per natura inquietante e capace di riportare sulla scena una piccola eco di quella grande paura metafisica che è alla base di tutto il teatro antico” (Antonin Artaud, La messa in scena e la metafisica, ne Il teatro e il suo doppio, Einaudi 1968, p. 161).

È questa la dimensione più inedita per chi legge Frankenstein per la prima volta, e scopre che l’essere di cui conosceva la mostruosità e i delitti non mugola in modo bestiale ma parla, discute, racconta in prima persona la sua storia, chiede di non essere ‘visto’ con orrore ma di essere ‘ascoltato’ e amato. (…) Tre narratori si succedono (…) in una sequenza polifonica, che consente a ciascuno di dire in forma di monologo la propria storia. Ma questo sistema originale di cerchi concentrici, a guardarlo nella sua interezza, non disegna affatto una simmetrica figura geometrica. La sua dinamica dialogica e conflittuale mette in moto in realtà una struttura drammatica dove ogni battuta è esplicitamente detta a qualcuno, quando non è addirittura imposta a un interlocutore, costretto a quel punto al silenzio e all’ascolto. Così Frankenstein tronca di colpo il diario appena iniziato di Walton, così l’essere mostruoso lacera e contraddice la confessione romantico-faustiana di Frankenstein, sottraendogli l’egemonia della narrazione e uscendo dalla zona di fisicità muta, dove si vorrebbe confinarlo. Raccontare la propria storia diventa allora, in questo caso, un desiderio e un diritto rivendicato contro chi dialoga solo con se stesso (‘Ascolta la mia storia’); e in questo consiste anche lo scontro tra lo scienziato e la sua creatura…” (Laura Caretti, Introduzione, in Mary Shelley, op. cit., 11-12).

Christian Caliandro

LE PUNTATE PRECEDENTI

Fase Tre (I). L’opera e la realtà
Fase Tre (II). Essere l’altro
Fase Tre (III). La paura e gli interstizi
Fase Tre (IV). Crisi e rinascita
Fase Tre (V). Ricordi e postapocalisse

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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