L’arte rotta (XVII). L’irrilevanza dell’arte contemporanea
L’arte contemporanea gioca un ruolo marginale e irrilevante nell’immaginario collettivo del nostro Paese. Ma come si stanno muovendo gli artisti per cambiare questo dato di fatto?
“Il centro non reggeva”.
Joan Didion, Verso Betlemme (1968)
Da più parti è stato notato come la scomparsa di Germano Celant il 29 aprile sia stata praticamente ignorata dai principali TG della sera: lo spazio riservato alla cultura era dedicato, per esempio, ai video di Annalisa e di Cesare Cremonini, al salvataggio delle opere d’arte durante la Seconda Guerra Mondiale, ai cinquant’anni di Uma Thurman e a come l’ultima vincitrice di Amici stesse affrontando la quarantena. Anche una buona metà dei quotidiani nazionali, il giorno dopo, ha riservato alla notizia l’equivalente di un trafiletto.
Certo, la scoperta che la morte del più grande critico e curatore italiano – e uno dei più noti a livello internazionale ‒ non fosse adeguatamente presentata e rappresentata nel panorama mediatico ha creato scompiglio, malumore, persino sdegno nel mondo dell’arte nostrano: non avrebbe dovuto, però. Perché se ci pensiamo bene questa carenza di spazio costituisce invece la rappresentazione, molto adeguata, dell’insignificanza, della marginalità, dell’irrilevanza che ricopre l’arte contemporanea nel discorso pubblico del nostro Paese, in questi tempi e ormai da parecchi anni.
La ragione di questo scarso peso risiede proprio nella separazione tra questo discorso pubblico (che comprende: realtà dei media, dello spettacolo, dell’immaginario condiviso) e realtà dell’arte. Una separazione che di sicuro è almeno in parte il risultato inevitabile dell’elitarismo, della chiusura, anche del classismo che caratterizzano il sistema artistico. Ma c’è dell’altro, e questo tipo di spiegazione non esaurisce il problema: il curatore, e l’artista, e l’opera semplicemente non esistono nella narrazione pubblica; non esistono e non hanno alcun ruolo. Lo abbiamo potuto verificare anche durante le settimane di quarantena: mentre dagli schermi attori, cantanti, presentatori, comici, scrittori ci invitavano a restare a casa, quanti sono stati gli artisti visivi coinvolti? Nessuno.
Ovviamente, questa mancanza di attenzione è uno dei tanti processi preesistenti che il virus (il grande amplificatore che ormai conosciamo) ha fatto e fa emergere, rendendoli improvvisamente più visibili. E, una volta preso atto di questo stato di cose, occorre porci alcune domande in proposito, invece di abbandonarci all’ennesima lamentazione.
A essere messo in questione è il rapporto tra arte e immaginario in Italia: perché l’arte non riesce da tempo a influenzare, né a penetrare in alcun modo, l’immaginario condiviso? D’altra parte, è anche – e forse soprattutto ‒ questa la rottura dell’arte di cui parliamo nel corso di questa serie, la rottura del titolo. Una frattura fondamentale tra arte e pubblico, tra arte e mitologie collettive. Una frattura, una separazione che anche i migliori progetti di arte pubblica, partecipativa, relazionale non sembrano in grado di colmare.
Forse, occorre chiedersi da che cosa esattamente sia costruito l’immaginario italiano degli ultimi anni. Se non è l’arte, che cosa contribuisce a formarlo? La TV? I social network? La musica? Il cinema? Le serie tv? Che cosa? E, una volta che abbiamo riconosciuto i fattori che danno corpo all’immaginario, in che modo l’arte contemporanea può tornare a farne parte?
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In questi giorni ho visto su Netflix una serie documentaria, Hip-Hop Evolution, che ricostruisce in quattro stagioni l’evoluzione del linguaggio dell’hip-hop attraverso i suoi principali protagonisti e le città in cui è nato e si è sviluppato, anno dopo anno, decennio dopo decennio fino ai giorni nostri.
Pur nella semplicità necessaria a un contenuto di intrattenimento, queste puntate raccontano molto bene un aspetto fondamentale di questa sottocultura musicale (comune del resto a tutte le altre): il fatto cioè che questo linguaggio, e i suoi diversi stili, sono una risposta a esigenze e istanze che vengono dalle comunità, dai quartieri. Tutti i DJ e gli MC intervistati (da New York a Los Angeles, da Detroit a Houston e Atlanta) sottolineano spontaneamente questo profondo legame con il proprio tessuto sociale, e l’esigenza personale di raccontare la propria vita così come è, in modo che la gente possa immediatamente relazionarsi (relate) con la musica e con le rime.
Ecco, direi che l’elemento di una partecipazione popolare che caratterizza la nascita e l’evoluzione di un fenomeno culturale ‒ una partecipazione priva, passaggio dopo passaggio, di ogni paternalismo – è qualcosa su cui l’arte contemporanea potrebbe riflettere, se non preferisce restare in una dimensione elitaria, esclusiva e in ultima analisi irrilevante in termini di immaginario culturale collettivo.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
L’arte rotta (I)
L’arte rotta (II)
L’arte rotta (III)
L’arte rotta IV
L’arte rotta V
L’arte rotta VI
L’arte rotta VII
L’arte rotta VIII
L’arte rotta IX
L’arte rotta X
L’arte rotta XI
L’arte rotta XII
L’arte rotta XIII
L’arte rotta XIV
L’arte rotta XV
L’arte rotta XVI
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