Fase Tre (X). L’opera e il contesto

“Se l’opera d’arte fosse in un disaccordo insanabile con il proprio tempo, con la propria epoca – se cioè la disconoscesse profondamente?”. Nuove riflessioni di Christian Caliandro sulla Fase Tre.

Viviamo in un’epoca in cui all’opera – qualunque opera, di qualunque genere – si richiede di adeguarsi al proprio tempo, allo spirito del tempo, di catturare, agganciare, afferrare questo spirito. Bene. Ma se non fosse questo il compito dell’opera? Se l’opera d’arte fosse in un disaccordo insanabile con il proprio tempo, con la propria epoca – se cioè la disconoscesse profondamente?
Allora, vorrebbe dire che l’opera sta covando dentro di sé un altro tempo, un altro presente a venire, con tutti i dubbi e le incognite che ciò comporta. Voglio dire, l’opera non deve per forza accettare gli argomenti, le caratteristiche, gli atteggiamenti e le disposizioni del proprio contesto (del contesto in cui esiste, ma a cui non appartiene).
Il rischio, ovviamente, è che questa epoca “prefigurata” al suo interno non si realizzi mai, non si concretizzi, rimanga in uno stato larvale: ma non è questo il senso, in fondo, della qualità “visionaria” dell’arte?

NUOVI MODI PER L’ARTE

Credo che proprio la chiusura, l’isolamento estremo e prolungato di questo periodo abbia fatto e stia facendo emergere alcuni processi che erano già in atto, ma che sicuramente come spesso abbiamo detto hanno subito una straordinaria accelerazione. Tra questi, il rifiuto e il fastidio per i meccanismi e i dispositivi tradizionali di “esposizione”, di “messa-in-mostra”. Il fatto cioè che per l’opera ci siano e ci debbano essere luoghi deputati e istituzionali (il museo, la galleria, la fiera, ecc.), quasi tutti luoghi al momento negati dalle condizioni che stiamo vivendo – e che questi luoghi siano gli unici spazi in cui l’opera possa dispiegarsi, essere percepita e fruita.
Penso che, al contrario, l’opera d’arte abbia trovato e stia trovando modi differenti di “aprirsi”, per vivere nel mondo ed essere così disponibile per un numero più vasto e ricco di persone, rispetto a quello garantito tradizionalmente. Tale apertura avviene certamente nell’ecosistema digitale, ma anche nell’esistenza di tutti i giorni.

Raffaele Fiorella, Sculture da mare, 2021, progetto sperimentale in Realtà Aumentata

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LE PAROLE DI DONNA HARAWAY

È questo il senso della teoria sulla “sporta del narratore” che Donna Haraway mutua dalla scrittrice di fantascienza Ursula K. LeGuin. Non l’abolizione del racconto/opera, ma un’opera/racconto che riesce a mutare punto di vista, che non si ferma su protagonista e strumenti, figura e sfondo, ma che ingloba organicamente tutti questi aspetti all’insegna del “con-divenire”: “Quasi tutta la storia della Terra è stata raccontata in balìa di una fantasia: la fantasia delle prime bellissime armi come parole, e viceversa. Strumento, arma, parola: la parola fatta carne a immagine del dio dei cieli, questo è l’Antropos. In una storia tragica in cui c’è un solo attore reale, un solo vero creatore del mondo, l’eroe, questo è il racconto del cacciatore in missione che va a uccidere e torna con il terribile trofeo, la storia che genera l’Uomo. (…) Tutti gli altri in questo racconto fallico sono solo oggetti di scena, terreno, appigli per la trama, o prede. Non hanno importanza, il loro compito è stare tra i piedi, essere scavalcati, essere la strada, il condotto, ma non il viandante, non il genitore. L’ultima cosa che l’eroe vuole sapere è che le sue bellissime parole e le sue bellissime armi saranno inutili senza una sporta, un contenitore, una rete. Cionondimeno, nessun avventuriero dovrebbe lasciare la propria casa senza portarsi dietro un sacco. Come hanno fatto la fionda, la pignatta e la bottiglia a entrare improvvisamente nel racconto? Come fanno oggetti così umili a far proseguire la storia? O forse – idea ancora peggiore per l’eroe – come fanno queste cose concave e svuotate, questi buchi nell’Essere, a generare sin dall’inizio storie più ricche, particolari, piene, impossibili da categorizzare, capaci di progredire, storie che danno spazio al cacciatore ma che non raccontavano e non raccontano di lui, l’umano che si fa sé, la macchina della storia che crea l’umano? (…) storie di con-divenire, di induzione reciproca, di specie compagne il cui compito nella vita e nella morte è non far finire il racconto, il divenire del mondo” (Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero 2019, pp. 63-64).

Christian Caliandro

LE PUNTATE PRECEDENTI

Fase Tre (I). L’opera e la realtà
Fase Tre (II). Essere l’altro
Fase Tre (III). La paura e gli interstizi
Fase Tre (IV). Crisi e rinascita
Fase Tre (V). Ricordi e postapocalisse
Fase Tre (VI). Che cosa rimane
Fase Tre (VII). Imprevisti e responsabilità
Fase Tre (VIII). Rompere il silenzio
Fase Tre (IX). La percezione del futuro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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