L’arte non è una questione da museo

L’opera d’arte ha bisogno di essere attivata, se diventa un puro oggetto da museo perde la sua funzione relazionale

In fondo le opere d’arte […] sono strani strumenti. Sono, cioè, strumenti che non
possiamo usare, strumenti inutili: testi privi di contenuto, immagini che non mostrano nulla. E dunque ci impongono di non fare. Di smettere di agire, di applicarci o
addirittura di chiederci cosa stiamo facendo
” (Alva Noë, Strani strumenti. L’arte e la natura umana, Einaudi, 2022, p. 134).
Ecco, l’arte degli ultimi quindici-vent’anni ha imposto un contenuto a questi “testi privi di contenuto”, ha forzato queste immagini a mostrare qualcosa invece di nulla. Il non fare, il non agire è quasi scomparso dall’orizzonte dell’arte contemporanea, per essere sostituito dall’efficienza, dalla corrispondenza tra azione e risultato, tra opera ed effetto immediato. È stato un periodo in fondo dominato da opere orientate, da opere cioè che avevano acquisito improvvisamente uno scopo pratico, fino a essere esse stesse trasformate in ‘contenuti artistici’.

Alva Noë – Strani strumenti. L'arte e la natura umana (Einaudi, Torino 2022)

Alva Noë – Strani strumenti. L’arte e la natura umana (Einaudi, Torino 2022)

OPERA D’ARTE E CONTENUTO

Possiamo immaginare il contenuto come l’esatto opposto rispetto all’opera: laddove quest’ultima è un’infrastruttura per costruire un rapporto, un’esperienza diretta e viva, il contenuto è destinato unicamente e semplicemente al consumo, è progettato per esso, e soprattutto è intercambiabile con tutti gli altri contenuti. Per questo, come ci dice Noë sulla scorta di John Dewey, il territorio del museo è antitetico a quello dell’arte: “Certo, alcuni artisti creano oggetti e tutti creano o fanno qualcosa. Ma i prodotti finiti non sono semplici manufatti pronti per essere conservati negli archivi dei musei, anche se – fatto piuttosto scandaloso – è così che la nostra cultura tende a concepirli. Costituiscono piuttosto l’occasione per un coinvolgimento attivo da parte delle persone disposte a farne qualcosa. […] Prese a sé, le opere d’arte sono qualcosa di morto, mero rumore, oggetti inutili. Le restituiamo alla vita quando riflettiamo su di esse, ne parliamo, ne godiamo. […] Dewey aveva ragione quando affermava che il museo, in un certo senso, è antitetico all’arte, proprio perché non è possibile fare esperienza dell’arte semplicemente guardandola, prendendo nota di ciò che dice l’audioguida o l’esperto, come se i valori dell’arte fossero facili da trasmettere! Le opere d’arte non stanno in bella mostra nei musei affinché tutti possano semplicemente guardarle. Pubblico e creatori interagiscono attraverso le opportunità realizzate dagli artisti. Non ci limitiamo a percepire l’arte, la mettiamo in scena” (ivi, pp. 159-160).

Laura Cionci, Bearpower, 2020, acquerello e china su carta, 21x35 cm

Laura Cionci, Bearpower, 2020, acquerello e china su carta, 21×35 cm

ARTE E RELAZIONI

L’opera ha bisogno di essere attivata, e per fare questo deve essere estratta dal circuito della conservazione e della contemplazione. Perciò, opere concepite e realizzate per finire esclusivamente nel museo non hanno alcun senso, e nascono già morte. L’opera che invece è in grado di condurre la propria esistenza nel mondo è anche in grado e ha necessità di stabilire rapporti profondi con le persone con cui entra in contatto, fino a curarle.
Per fare questo, dunque, l’arte sfrangiata ‒ pur coltivando la dimensione fondamentale del non fare, e rimuovendo dal proprio orizzonte il risultato concreto e lo scopo pratico – è capace di fondersi sempre più con il contesto in cui si inserisce e a cui appartiene: l’opera, in questo senso, serva a compiere un percorso.
La vera opera dunque è proprio l’esperienza profonda, immateriale, relazionale; l’esistenza che accade, l’esistenza nel momento stesso in cui accade: “L’arte, come la cultura e gli intellettuali, dovrebbero andare in un’unica direzione per cercare non più di sensibilizzare, visto che il tempo è scaduto, ma di accelerare questo cambiamento, di accendere la consapevolezza che quello che stiamo vivendo è più che l’inizio della fine. Deve essere una missione, appunto, non può essere un lavoro o uno stile di vita alla moda. Da una parte la grande crisi globale rende il superfluo ancora più superfluo, il casino mediatico genera mostri giganti che durano il tempo di un respiro e le persone non hanno più lo stimolo all’attenzione e alla riflessione. […] Mentre tutto questo si fa enorme, chi ha la sensibilità di percepire il pericolo dovrebbe creare una finestra accessibile a tutti di riposo e riflessione e, oltre a creare questo spazio, educare il pubblico al suo utilizzo” (Laura Cionci, Stato di grazia, Postmedia Books, Milano 2020, pp. 17-18); “Crediamo nella ricerca, in quella ricerca che prende un’intera vita, che diventa appunto una missione per l’artista; crediamo nella sana visione di un lavoro che serve allo sviluppo collettivo; crediamo nell’artista che genera sinergie, che fa rete e che prende forza dalle esperienze dei territori, dalle differenti culture, dalle mille forme di immaginazione che ha ogni essere umano. L’artista è un veicolo che
rende visibile l’immaginario collettivo: nel migliore dei casi un immaginario futuro, una predizione, una spinta verso qualcosa di migliore
” (ivi, p. 23).

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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