Fase Tre (XV). Cosa vogliamo dall’arte

Siamo proprio sicuri che la soluzione sia attendere un improbabile ripristino delle modalità pre pandemia anche in ambito artistico? Le riflessioni di Christian Caliandro.

Riguardo alla scorsa puntata, in cui mi chiedevo e vi chiedevo che fine avessero fatto le opere d’arte strepitose che ci aspettavamo da questo anno pandemico, alcuni hanno risposto per esempio che certamente gli artisti ci avranno lavorato su in questi mesi e che tra poco le potremo vedere. Anche io lo spero, molto.
Eppure, anche in questa risposta, se guardiamo bene, a fondo, c’è un problema che si apre. Perché allora dobbiamo immaginare una moltitudine di artisti che hanno concepito e realizzato opere e progetti, che nessuno finora ha ammirato e che gli autori non vedono l’ora di mostrare al pubblico festante, al più presto. Quando tutto sarà finito. Quando tutto tornerà come prima.
E siamo sempre lì, in fondo: è davvero questo ciò che vogliamo? Una schiera di autori che approfitta di un’epoca terribile per “condire” un po’ ciò che sta facendo, e poi esporlo secondo le medesime modalità che vigevano nel mondo di prima? Un po’ triste, direi. Proprio ieri, un mio amico mi illustrava questo misterioso algoritmo che regolerebbe la costruzione narrativa e creativa delle serie Netflix, regolandone nei minimi dettagli ogni aspetto, dal tema al taglio ai costumi (e in effetti, devo dire che certe somiglianze tra prodotti che appartengono anche a continenti tra loro lontani saltano decisamente all’occhio…).
Ecco, non vorrei – ma tanto sappiamo che qualcosa del genere è già successo – che un algoritmo analogo fosse in azione anche nell’arte visiva: come se i lavori che ‘riflettono’ sull’Antropocene e sul Capitalocene fossero in procinto di essere magicamente sostituiti da quelli che affrontano coraggiosamente il virus e le sue conseguenze.

Judy Chicago, Lloyd Hamrol, Eric Orr, Dry Ice Environment #1, 1967, performance in un parcheggio a Century City, Los Angeles, photo courtesy Through the Flower archives

Judy Chicago, Lloyd Hamrol, Eric Orr, Dry Ice Environment #1, 1967, performance in un parcheggio a Century City, Los Angeles, photo courtesy Through the Flower archives

NON RIPRISTINO MA RECUPERO

Quello di cui forse abbiamo più bisogno in assoluto in questo momento non è proprio un’opera che se ne sta lì, al chiuso e al riparo, in attesa di tempi migliori in cui far vedere orgogliosamente agli spettatori come il suo autore è sopravvissuto al lockdown e alle tante call su Zoom. Ma è, al contrario, un’opera che abbia già di fatto rinunciato in maniera strutturale a presentarsi come prima, come si faceva prima, e che sia in grado di inoltrarsi nel nostro spazio e nel nostro tempo, nella nostra esistenza quotidiana, qui e ora, mettendosi in connessione con i pensieri distorti e le notti insonni.
Un’opera cioè che non attenda timidamente il ripristino – sapendo peraltro esso non verrà mai – ma che sia capace di esistere qui e ora, a queste precise condizioni e non ad altre. Allora, più che ripristinare vale la pena di recuperare alcuni fondamenti. Ci sono infatti parole che, pur risalendo agli Anni Trenta del secolo scorso, sembrano realmente scritte oggi, e per il presente: “Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è uno strano parallelismo fra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della demoralizzazione attuale, e i problemi di una cultura che non ha mai coinciso con la vita, e che è fatta per dettare legge alla vita. Prima di riparlare di cultura, voglio rilevare che il mondo ha fame, e che non si preoccupa della cultura; solo artificialmente si tende a stornare verso la cultura dei pensieri che si rivolgono verso la fame. La cosa più urgente non mi sembra dunque difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame” (Antonin Artaud, Il teatro e la cultura, ne Il teatro e il suo doppio, Einaudi 1968, p. 127).

Un’opera cioè che non attenda timidamente il ripristino – sapendo peraltro esso non verrà mai – ma che sia capace di esistere qui e ora, a queste precise condizioni e non ad altre”.

Questa “forza di vita” è ciò che lega l’opera alla realtà e alla vita, distaccandola anche violentemente – anche a causa di eventi contingenti ‒ dalle modalità cristallizzate di fruizione: “È bene che talune nostre eccessive comodità scompaiano, che certe forme siano dimenticate: allora la cultura fuori dello spazio e del tempo, racchiusa nella nostra capacità emotiva riapparirà con accresciuto vigore. È dunque giusto che ogni tanto avvengano cataclismi per incitarci a ritornare alla natura o, in altre parole, a ritrovare la vita. (…) Arte e cultura non possono andare d’accordo, contrariamente a quanto in genere si pretende! La vera cultura agisce attraverso l’esaltazione e la forza, mentre l’ideale estetico europeo tende a gettare lo spirito in uno stato di separazione dalla forza e a farlo assistere alla propria esaltazione” (ivi, p. 130).

Christian Caliandro

LE PUNTATE PRECEDENTI

Fase Tre (I). L’opera e la realtà
Fase Tre (II). Essere l’altro
Fase Tre (III). La paura e gli interstizi
Fase Tre (IV). Crisi e rinascita
Fase Tre (V). Ricordi e postapocalisse
Fase Tre (VI). Che cosa rimane
Fase Tre (VII). Imprevisti e responsabilità
Fase Tre (VIII). Rompere il silenzio
Fase Tre (IX). La percezione del futuro
Fase Tre (X). L’opera e il contesto
Fase Tre (XI). Aperture e imprevisti
Fase Tre (XII). Il punto di rottura
Fase Tre (XIII). Consumo e arte contemporanea
Fase Tre (XIV). La reazione dell’arte

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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