E ora facciamola finita con la storia dell’artista-sciamano

Christian Caliandro continua ad affrontare il tema della fuoriuscita rapportandola al mondo dell’arte. Un invito a recuperare la dimensione dell’autenticità e a rifiutare le logiche degli artisti-sciamani.

Che cos’è in effetti l’atteggiamento decorativo oggi? In che cosa consiste?
Per esempio: l’artista che tratta i materiali del passato e della storia recente come dei “blocchetti”, dei minuscoli oggetti di nostalgia, lascia di fatto le cose morte del (nel) passato e rende così morto anche il presente, invece di vivere entrambe le dimensioni riattivandole ed esperendole come contemporanee.
Qual è la motivazione profonda di un atteggiamento (creativo) del genere? Sempre la stessa: mettersi al riparo. Rincantucciarsi, comodi e protetti, nell’invenzione dell’Autore. Colui cioè che dispone dei “frammenti” e li gestisce, li ordina a partire da un senso pre-costituito, pre-stabilito, sapendo già come andrà a finire e conoscendo già il risultato. Non solo, con lo sguardo orientato – fin dall’inizio ‒ all’ottenimento di questo risultato.
Programmando anche tutte le svolte e le deviazioni (senza neanche un presentimento delle contraddizioni insite in un’operazione del genere). È l’ansia del Programma – qualcosa di antitetico rispetto al Processo. Il Processo coincide con l’arte sfrangiata, aperta e disponibile all’imprevisto, all’incontro cioè con un altro che non si conosce, i cui comportamenti e gusti e scelte non si conoscono, né si sospettano.

I LIMITI DELL’ARTISTA-SCIAMANO

L’artista-sciamano(-mago) si barrica di fatto entro il suo tempio, e vuole difenderlo a tutti i costi dalle orde di barbari che premono alle porte. Barbari che non sanno nulla, proprio nulla dell’arte e delle sue regole, della “pulizia” – soprattutto – che ci vuole per creare, o anche per fruire se è per questo, un’opera d’arte degna di questo nome! Soprattutto, l’artista-sciamano è intenzionato a mantenere in funzione e a preservare quel meccanismo che sembra coincidere con la fruizione dell’opera (e invece, a ben guardare, è solo una convenzione come tante altre: la contemplazione. La contemplazione dell’opera da parte dello spettatore/visitatore è contemplazione dell’artista-sciamano. Rappresenta cioè per lui la garanzia che riuscirà a tenere ben inchiodato lo spettatore nel suo ruolo, nella sua casella, zitto e buono, impegnato solo a adorare l’artista(-sciamano) attraverso l’opera.
E se, invece, gli spettatori non ci fossero (più)? Se si trasformassero in qualcos’altro, come esseri umani che una volta morsi diventano zombie? Se pretendessero per esempio di partecipare attivamente all’opera, addirittura di essere suoi co-autori? Di dire la loro? Di “sbocciare nella reciprocità” (Carla Lonzi)?
Allora, forse (dico solo: forse), l’artista-sciamano si sentirebbe perso, si dispererebbe. E, lentamente, comincerebbe a comprendere come le sue opere “epiche”, “monumentali”, pesanti, ingombranti, mega, siano diventate – e già fossero, in effetti e a ben vedere, prima – inesorabilmente vecchie e irrimediabilmente inutili.
E come le opere davvero forti siano apparentemente deboli, incerte, precarie, fragili, instabili – fatte di e con nulla, di e con il vuoto.

Carla Accardi, Tenda, 1965

Carla Accardi, Tenda, 1965

TORNARE ALL’AUTENITCITÀ

Quello che ho capito.
Non basta riferirsi alla realtà: usare cioè i suoi pezzi sparsi per costruire un’opera. È questo l’equivoco dietro molta dell’arte pubblica recente e attuale. Il problema, forse, consiste ancora e sempre nel paternalismo (e, a sua volta, dietro e sotto e dentro questa espressione c’è, ovviamente, il patriarcato). Il paternalismo scava infatti una distanza rispetto all’oggetto dell’opera: l’estetica, diciamo, vernacolare e povera viene assunta per così dire senza un’autentica partecipazione, ma attraverso un distacco che può essere di volta in volta ironico, nostalgico, cinico.
Insomma, è come dire: “Vedete, io assumo all’interno del mio lavoro questi caratteri, ma io non sono proprio così, sono un Artista, un Autore, è solo che mi piace giocare un po’ con questi elementi popolari, per dimostrarvi quanto sono bravo, e raffinato, e ‘inclusivo’.” Ma ciò che manca davvero è ammettere effettivamente l’Altro come co-autore, co-creatore, con tutti i suoi difetti, il suo gusto, le sue idiosincrasie. Voglio dire che è molto difficile strutturare e portare avanti un vero lavoro collettivo, ma è realmente ciò che mi interessa a questo punto – perché tutto il resto indica l’Artista che trova sempre nuovi modi per mettersi sul piedistallo, per sentirsi superiore, e io lo trovo stucchevole.
La finzione, l’inautenticità, anche se ben nascosta, si percepisce subito.

Christian Caliandro

LE PUNTATE PRECEDENTI

Fuoriuscita (I). L’arte aperta
Fuoriuscita (II). Artista e spettatori
Fuoriuscita (III). Carla Lonzi e il rifiuto del successo
Fuoriuscita (IV). Relazioni e reciprocità
Fuoriuscita (V). Gli artisti e la contraddizione
Fuoriuscita (VI). Il metodo dell’incertezza
Fuoriuscita (VII). Critica e coscienza
Fuoriuscita (VIII). L’arte per tutti
Fuoriuscita (IX). Vuoto e costruzione
Fuoriuscita (X). Nuovo capitolo del saggio su Carla Lonzi
Fuoriuscita (XI). Carla Lonzi e l’arte contemporanea

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

Scopri di più