L’arte rotta (XVIII). La fatica del cambiamento

Perché gli “artisti che ci fanno tanto divertire” citati da Conte hanno generato indignazione e scalpore? Quelle ormai celebri parole restituiscono il ruolo pressoché nullo giocato dall’arte contemporanea nella percezione comune.

Come in occasione della scomparsa di Germano Celant, anche l’infelice frase che il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha pronunciato la sera del 13 maggio scorso durante la presentazione del Decreto Rilancio ha suscitato scalpore e indignazione nel mondo dell’arte. “La cultura, non dimentichiamo questo settore, abbiamo un occhio di attenzione per i nostri artisti che ci fanno tanto divertire e appassionare…”: queste le ‒ ormai famigerate – espressioni incriminate.
Ma, esattamente come nel caso precedente – il peso quasi nullo sui media nazionali della scomparsa del più famoso critico e curatore italiano – anche questo nuovo episodio non avrebbe forse dovuto scatenare una reazione del genere. Per due motivi.
Primo: Conte non aveva certamente in mente, mentre pronunciava la parola “artisti”, gli artisti visivi. Non gli è passato proprio per la testa. Pensava infatti ad altro, e ad altre figure: i professionisti dello spettacolo; magari un tipo di artista a metà tra intrattenitore, comico e cantante. Di sicuro, nulla che avesse minimamente a che fare con l’arte contemporanea: su questo occorrerebbe concentrare l’attenzione – sull’assenza pressoché totale dell’arte prodotta oggi dall’orizzonte concettuale, non solo quando si parla di cultura in sede istituzionale, ma anche solo quando si pensa a essa – piuttosto che sulla presunta offensività del binomio divertimento & passione.
Secondo: invece che scaldarci e scandalizzarci, avremmo dovuto piuttosto ringraziare Giuseppe Conte perché, con una semplice frase ci ha illustrato la concezione che governo e classe dirigente hanno – e non da oggi – di arte e cultura.
Qualcosa cioè che rassicura, che facilita l’evasione, che intrattiene; che non pone problemi, che smussa le contraddizioni e i conflitti – invece che farli emergere e deflagrare. Certamente non un disturbo, o una critica. Qualcosa che, appunto, con simpatia e positività, “diverte e appassiona”. In effetti, è un ritratto fedelissimo di ciò che, da anni e decenni, è considerata la produzione artistica e culturale in Italia.

Luigi Presicce, Arlecchino biondo, 2020, matite colorate su carta, cm 48x27

Luigi Presicce, Arlecchino biondo, 2020, matite colorate su carta, cm 48×27

LA RETORICA SULL’ARTE

Non c’è da stupirsi; ed è inutile anche girarci intorno. Insistere sulla presenza all’interno del discorso pubblico di una concezione diversa (che ovviamente esiste nei fatti, ma è del tutto minoritaria a livello di rappresentazione), allo stato attuale, è pura retorica – unita, come ogni retorica che si rispetti, a una buona dose di ipocrisia. Significa, ancora una volta (e nonostante l’operazione-verità a cui, come si è capito, costantemente ci obbliga in ogni campo questo virus), insistere su versioni imbellettate della realtà, spingere sul tasto della finzione, voler ostinatamente vedere e far vedere quello che non c’è.
La rottura dell’arte, di cui abbiamo provato a parlare e che abbiamo indagato nelle diciotto puntate di questa serie che si conclude oggi, è questa qui. La separazione netta tra verità, cruda e sgradevole, e finzione, inutile e dannosa. La separazione tra arte e comunità, tra arte e pubblico, tra arte e popolo.
Agli artisti e a chi li accompagna nel loro percorso conoscitivo sta ora, nella tanto sospirata – e forse anche temuta – Fase 2, compiere l’operazione di abbandonare ogni tentazione consolatoria e autoassolutoria. Nella versione finzionale infatti – quella che a ogni costo si ostina a non voler considerare “le cose come stanno” ma che anzi si rifugia nelle illusioni comode, luccicanti così tipiche del prima – e nelle sue trappole concettuali e pratiche si annidano le maggiori criticità che riguardano il mondo dell’arte, quelle che l’hanno allontanato sempre di più dalla realtà esistenziale delle persone (quelle che non si riferiscono in alcun modo al “sistema”): il paternalismo, il classismo e l’elitarismo.
Il mondo dell’arte – italiano e internazionale – si è fondato negli ultimi anni e decenni su un principio di “autorità” che come si vede non possiede basi molto solide, e che viene molto spesso confuso con la vera “autorevolezza”. Il centro non regge.

Iginio De Luca, Sono l'automa e l'ordigno, 2019

Iginio De Luca, Sono l’automa e l’ordigno, 2019

TRA RIPRISTINO FORZATO E CAMBIAMENTO

Ora, ci sono davanti a noi due strade principali (nell’arte, così come in tutti gli altri territori dell’esistenza individuale e collettiva). Quella che si conforma sostanzialmente al criterio, come abbiamo spesso sintetizzato su queste pagine, del “no, non mi va, desidero che tutto torni esattamente come era prima”, e quindi del ripristino forzato delle modalità precedenti, del ritorno all’accelerazione, all’eventificio frenetico, alla percezione e alla fruizione distratta, alla transitorietà, all’omologazione, all’indifferenziazione spaziale e temporale ‒ non importa quali siano i costi effettivi di questo ritorno e di questo ripristino (secondo questa opzione dunque, come ha affermato di recente Michel Houellebecq, “il mondo di domani sarà come quello di ieri, solo un po’ peggio”).
Oppure, portare avanti faticosamente un cambiamento, che si dovrà basare su criteri, attitudini e scelte del tutto opposti a quelli che regolavano il prima. È del tutto possibile che le due strade non si escludano a vicenda, ma che coesistano e vadano in parallelo – almeno per un po’.
A pochi giorni dalla sua morte, il musicista Ezio Bosso ha affidato proprio ad Artribune la sua ultima intervista, che contiene parole importanti riguardo alle ragioni per cui adesso non possiamo davvero più permetterci la scarsa lungimiranza o la prospettiva corta su questi temi: “Potrebbe costarci soprattutto la perdita dell’ethos. L’ethos è l’insieme delle cose che creano un ambiente favorevole alla vita di un essere vivente. Sentiamo dire che ormai questo virus è un fenomeno che è entrato nella nostra prassi quotidiana, insomma nel nostro ethos. Ma quanti virus ci sono ormai nel nostro ethos? Dobbiamo assolutamente riconoscere che il benessere di un essere umano non è solo una pastiglia o un vaccino. È fatto anche di sole, di saluti, di musica, di arte, di sentirci tutti uguali. (…) quando si ha paura si tende a stare immobili e a eliminare ciò che si pensa superfluo, ma per me è un concetto così lontano pensare la cultura superflua. Ritengo l’arte e la musica chiaramente una necessità, non riesco a concepire qualcuno che né scientemente né incurantemente possa eliminare questo a favore di altro”.

Christian Caliandro

LE PUNTATE PRECEDENTI

L’arte rotta (I)
L’arte rotta (II)
L’arte rotta (III)
L’arte rotta IV
L’arte rotta V
L’arte rotta VI
L’arte rotta VII
L’arte rotta VIII
L’arte rotta IX
L’arte rotta X
L’arte rotta XI
L’arte rotta XII
L’arte rotta XIII
L’arte rotta XIV
L’arte rotta XV
L’arte rotta XVI
L’arte rotta XVII

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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