L’arte relazionale secondo gli studenti dell’Accademia

La serie di Christian Caliandro dedicata all’arte comunitaria incorpora frammenti tratti dal dialogo con gli studenti durante le lezioni del corso di Linguaggi dell’arte contemporanea di quest’anno presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia

Rispetto a quello che stavamo dicendo l’altra volta riguardo l’opera collettiva, a proposito del suo funzionamento, delle possibilità diverse rispetto all’autorialità singola e delle criticità… Ad esempio abbiamo fatto la distinzione tra partecipazione semplice e co-creazione o co-autorialità: quindi se volessimo sintetizzare, quale è la differenza?
Gaia: Nella semplice partecipazione troviamo un artista o un gruppo di artisti che fa qualcosa e il pubblico fruitore interviene nell’opera in maniera molto marginale. Nella co-creazione, invece, l’opera viene creata da partecipanti che collaborano direttamente con gli artisti.
Quindi nella partecipazione i fruitori dell’opera non escono dal ruolo di spettatore, sono semplicemente chiamati a partecipare però adottando una delle opzioni scelte per loro dall’artista. Questo è uno dei grandi equivoci di gran parte dell’arte relazionale e/o partecipativa degli ultimi anni: la maggior parte dei progetti e delle opere partecipative prevede infatti l’obbedienza a un set di istruzioni, si partecipa ma alle condizioni dell’Artista. È chiaro che questa è una nozione molto comoda di partecipazione perché elimina anche i disagi e le difficoltà di un progetto realmente relazionale: ovviamente c’è il “colore” della partecipazione, cioè questa dimensione vagamente collaborativa, senza gli attriti e le frizioni che essa comporta.
La co-creazione o co-autorialità ‒ molto poco praticata ‒ in realtà presuppone il fatto che l’artista ceda parti intere della propria autorialità, della propria identità; che, per quanto riguarda un artista, coincide soprattutto con la nozione di stile, ciò che nell’arte rinascimentale e nel post-rinascimentale era chiamata maniera, ovvero la cifra stilistica non solo di un’epoca ma di un’individualità. (…)
Marta: Riprendendo il discorso fatto prima sulle gallerie, penso che sia vero che oggi la galleria è un posto di per sé asettico, ma anche che un lavoro come quello di Rirkrit Tiravanija funzioni proprio perché è stato sviluppato in quel luogo. Non è sempre detto che uno spazio “freddo” non possa essere sfruttato per rendere artistiche delle azioni banali come mangiare o cucinare.
Questo di sicuro, ma l’opera è un’infrastruttura di relazioni, una sorta di telaio che serve a costruire queste relazioni. L’idea, e questo è quello che contesta al Nicolas Bourriaud di Estetica relazionale Claire Bishop in Inferni artificiali, è che, riportando tutto questo discorso dentro lo spazio espositivo, siamo di fronte a una sorta di ‘simulazione’. La relazione che si crea lì non è qualcosa di vero, che si può utilizzare e far crescere nella vita quotidiana: è legata a quel momento, a quel progetto, che dà la sensazione, a chi partecipa, di aver preso parte a un’opera d’arte.  
La relazione in qualche modo c’è, ma rimanendo chiusa in quell’involucro rimane finta, rimane come un codice, uno spettacolo.

Rirkrit Tiravanija, Untitled (Tomorrow Is Another Day), 1996

Rirkrit Tiravanija, Untitled (Tomorrow Is Another Day), 1996

ARTE E SPAZIO ESPOSITIVO

Lo spazio espositivo in sé è studiato in modo tale da rendere lo spettatore a disagio, perché a cospetto dell’Arte. Il white cube è asettico proprio perché deve creare uno spazio in cui l’arte contemporanea può manifestarsi. Non è sempre stato così, lo spazio della quadreria e quello del Salon erano molto diversi, un po’ come il teatro; noi oggi abbiamo l’idea che se andiamo a una mostra, a un concerto o a teatro dobbiamo stare in silenzio, tutto è inquadrato in un codice, lo spazio è sacro, si entra nello spazio dell’arte. Mentre le opere di Oldenburg, Rauschenberg, gli happening di Allan Kaprow sin dall’inizio si muovono in una direzione completamente diversa, guardano a uno scenario in cui tu spettatore/fruitore entri nello spazio dell’arte quasi senza accorgertene, come se stessi a casa tua. Una modalità di fruire l’arte completamente diversa e inclusiva. (…)
Questo per dire che ci sono, anche guardando al passato, tante modalità diverse di fruire l’arte. Nella modalità che è ancora in vigore oggi per quanto riguarda l’arte contemporanea lo spazio espositivo è volutamente non neutro, anche se così sembra, perché in realtà appare ostile e freddo allo spettatore. In uno spazio del genere, per ogni tipo di lavoro, anche quello più relazionale in assoluto, diventa un problema già solo l’idea di essere inserito in quel tipo di contesto poiché in qualche modo esso depotenzia qualunque virtù o qualità di quel lavoro. Se noi spingiamo sempre più in avanti questa idea dell’opera d’arte autenticamente collaborativa, sappiamo che non può sopravvivere nello spazio espositivo.
Possono essere trasferiti e fruiti lì risultati, tracce, effetti ma non l’opera in sé, che deve vivere all’interno del tessuto e per la comunità per cui è stata attrezzata.

DA TRACEY EMIN A KURT SCHWITTERS

Adriana: Lei ha detto che un’opera come My Bed di Tracey Emin viene depotenziata se messa in uno spazio espositivo ma mi chiedo, se fosse rimasta a casa dell’artista, noi non l’avremmo riconosciuta come opera.
Non è detto, anche il MERZBAU non si è mai spostato dalla casa di Schwitters perché coincideva con la casa stessa, lo spazio dell’esistenza quotidiana, quindi l’hanno potuta ammirare poche persone, pochi amici a cui lui dedicava le “cappelle”, piccoli santuari dedicati al ricordo di quello specifico incontro o visita. È una scelta, credo che a Tracey Emin non interessasse affatto una prospettiva del genere poiché questa è un’opera minimamente relazionale. È un’artista di una determinata generazione che poi, infatti, si è dedicata alla pittura: la sua opera segna un clima, una certa atmosfera dell’arte della cultura inglese di quel decennio, un punto di arrivo perfetto per quell’epoca.
Ritornando al problema dello spazio espositivo, questo lavoro, calato nella sua dimensione originale, nel luogo dove era stato realizzato, molto probabilmente avrebbe conservato gran parte della sua potenza, trasferito nello spazio espositivo diventa un’altra cosa, che è quello che l’artista voleva e che le interessava. Ovviamente lasciarlo in casa avrebbe generato diversi problemi logistici nel portare le persone, e comunque sarebbe rimasto un progetto effimero, ridotto nel tempo, fruibile da un pubblico molto ridotto. Un’altra caratteristica infatti di questo tipo di progetti è che sono sempre molto concentrati nel tempo e nello spazio.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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