Riascoltare tutto – tutti i gruppi degli Anni Novanta e primi Duemila, l’intera discografia dei Radiohead per esempio, i Counting Crows e i Live, gli Helmet, i Prodigy, i Verve, i Gloria Record – riascoltarli come se fosse la prima volta, e in realtà è davvero la prima volta in qualche strano modo – la ripresentazione è la presentazione, la riproduzione è la produzione, e le cose le incontriamo davvero solo nel ricordo, nel recupero, nel riciclaggio, una volta estratte dall’esperienza diretta – un po’ come la pop art risiede davvero non nella superficie ma nella reflection, nel riflesso/riflessione (I’ll be your mirror) come dice Edie Sedgwick allo scettico presentatore Merv Griffin nel 1965 – ed è questa la trasformazione dello sguardo a cui torniamo e dobbiamo tornare sempre; la novità risiede nel modo in cui percepiamo e studiamo e indaghiamo la realtà che ci circonda, non negli strumenti o peggio ancora nelle tecnologie.
Solo nel riflesso e nel ricordo il mondo vive in noi.
(È la solita questione della distanza rispetto ai fenomeni: nessun soldato di prima linea – posto nel fuoco dell’impegno – ha mai raccontato la guerra; il ‘testimone’ è sempre infatti un vigliacco delle retrovie, un traditore; è uno cioè che ha posto una giusta distanza tra se stesso e il turbine degli eventi, uno che resiste alla brutalità dell’esperienza e che non si fa risucchiare e maciullare da essa, uno che coltiva una forma più sottile e diversamente intensa di disperazione…).
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A proposito della differenza tra artista e “persona d’azione”. Sì, credo che non si possa fare arte, o scrivere, essendo completamente DENTRO l’azione, la tempesta, il caos.
L’arte e la scrittura provengono (necessariamente?) dal di fuori della vita – da una zona esterna, estranea allo scorrere e al flusso dell’esistenza – quando fai arte o scrivi stai pensando e parlando in realtà da un territorio che non fa parte dell’esperienza quotidiana (infatti, il problema principale di molta arte e letteratura odierne è che la maggior parte degli autori – a differenza forse di altre epoche – pretendono di scrivere tutti dentro, dal di dentro, dall’interno, di parlare una lingua comune “diffusa”, quella della “maggioranza”, e pretendono che questo sia non solo un vantaggio pratico – che può essere – ma un vanto culturale, una sorta di “abbattimento-delle-barriere” – quando invece si tratta al massimo di un restringimento, di un rinchiudersi ulteriormente all’interno di confini angusti e anzi di un costruire nuove inutili barriere; invece di sfondare, ma sul serio, quelle che ci sono). L’arte/scrittura dal-di fuori diventa quindi sempre più impervia, e per questo sempre più interessante e decisiva: “Dentro di noi abbiamo un’Ombra: un tipo molto cattivo, molto povero, che dobbiamo accettare” (Carl Gustav Jung).

L’arte/scrittura che proviene da un vuoto – e quel vuoto è l’unica cosa vera che esiste, tra moltissime illusorie – l’arte/scrittura come un’interferenza, qualcosa di non previsto né atteso, il contrario dell’attenzione, qualcosa che non solo distrae e distoglie la concentrazione ma che nasce e cresce proprio nell’attimo della distrazione, che prospera sui margini, sugli spigoli, sui lati. (Un suono di campanelli elettronici totalmente distorto e immerso in una coltura ambientale – come soffermarsi sull’atmosfera, sull’aria tra i corpi, sugli spazi che separano gli oggetti piuttosto che su corpi e oggetti stessi. Sugli intervalli.)
La metafora della guerra è (purtroppo) sempre valida. È molto raro il caso di chi racconta dopo aver combattuto: lo standard è piuttosto lo stress post-traumatico, la condizione di mutismo che caratterizza i soldati (Prima Guerra Mondiale, Seconda Guerra Mondiale, Vietnam, Iraq, Afghanistan, ecc.). Chi racconta, chi testimonia? Il vigliacco, l’imboscato. Al massimo il reporter embedded, o comunque il giovane giornalista che sta al seguito e a fianco delle pattuglie, ma non nel fuoco dell’azione. È così, per esempio, nel caso di Omaggio alla Catalogna di George Orwell, di Addio alle armi di Ernest Hemingway (che faceva il conducente di ambulanza, e si fece pure ferire) o dei Dispacci di Michael Herr, forse il più bel reportage di guerra che è poi la base per Full Metal Jacket di Kubrick.
L’artista/scrittore/testimone deve stare comunque in qualche modo a distanza – a distanza di sicurezza. Per poter raccontare, non deve essere del tutto coinvolto.
‒ Christian Caliandro