Neovernacolare (VIII). Speranze resistenti

L’arte neovernacolare riporta l’attenzione sulla verità, rifiutando l’imposizione del controllo che sembra pervadere la creatività contemporanea.

In The Square, film del 2017 di Ruben Östlund che penso tutti o quasi coloro che leggono queste pagine abbiano visto, l’intera vicenda – peraltro dotata di una narrazione piacevolmente non lineare – ruota attorno alla distanza tra le convenzioni del mondo dell’arte e le abitudini, i problemi, le regole del mondo ‘normale’. Christian, il protagonista e curatore del museo “di arte moderna e contemporanea”, è il paradigma di questa oscillazione schizofrenica: nonostante la sua enorme, a tratti ingiustificata fiducia nelle potenzialità taumaturgiche del ‘quadrato’, nella vita reale è poi singolarmente incapace di empatia, fino a sembrare quasi affetto da una forma di dimenticanza, amnesia nei confronti del prossimo.
A un certo punto, e senza che ne venga data una spiegazione, il quadrato appare trasferito dal suo luogo d’elezione (la piazza antistante l’ingresso del museo) all’interno dello spazio espositivo: e trasferito anche con una certa dose di violenza, visto che è stato letteralmente sradicato dal pavimento (possiamo immaginare il buco che lascia lì davanti). Ecco, questa scena racchiude proprio il senso di questa dissociazione: una volta rinchiuso all’interno di una stanza buia, privato del contatto occasionale con le persone che sono cittadini e non più – o non ancora – spettatori, il quadrato sembra perdere tutti i suoi poteri: disattivato, divenuto qualcos’altro rispetto a ciò che era (un’opera tutto sommato banale di arte relazionale).
Nei comportamenti di Christian e nel trasferimento dell’opera dall’esterno all’interno, da uno spazio caotico a uno iper-controllato, possiamo riconoscere la difficoltà forse maggiore che l’arte incontra in questi ultimi anni e decenni. Attraverso un percorso di severa formazione collettiva e la conservazione di un codice estremamente rigido, si è ottenuto di separare nettamente la sfera in cui le scelte individuali e collettive hanno un reale impatto sulla società, e sulle comunità in cui viviamo, da quella in cui le scelte non sono vere e proprie scelte… ma solo la loro rappresentazione.

UNA QUESTIONE DI VERITÀ

Voglio dire, è come se lo schema e la forma mentis della fiction che presiede alle opere ‘pubbliche’ o ispirate ai criteri della social practice assolvessero a una funzione di sfogo, e al tempo stesso tenessero a bada un disturbo serio che riguarda la percezione. Infatti, sono convinto che non sia la sincerità il problema centrale: se chiedete alla maggior parte degli artisti che lavorano nelle “città”, nei “contesti difficili”, a contatto con le “problematiche politiche e sociali”, certamente ognuno di loro sarà sinceramente persuaso di stare cambiando qualcosa, di stare in minima parte risolvendo qualcosa. Sul serio. Ma, appunto, non si tratta di sincerità (ti puoi convincere a tal punto di una finzione da crederci anche tu); si tratta piuttosto di qualcosa con cui l’arte di questi anni, che viene non a caso dopo un trentennio buono di postmoderno culturale, si trova molto molto a disagio: la verità. La verità è difficile da maneggiare, soprattutto da un punto di vista cinico e ironico che la rifiuta categoricamente, considerandola qualcosa di antiquato, fuorimoda, del tutto inappropriato: non la puoi cioè mettere o tenere a distanza, perché tende a venirti addosso, ad appiccicarsi proprio nei meandri e negli interstizi creati dal dubbio. Ed è qui che entra in gioco l’arte neovernacolare, che adotta uno schema sensibilmente diverso.

Ruben Östlund, The Square (2017), still dal film

Ruben Östlund, The Square (2017), still dal film

NEOVERNACOLARE E OPERA

Vale a dire, quello del servizio: un’opera neovernacolare non ha alcuna difficoltà a rifiutare la dimensione del controllo per dedicarsi a sviluppare le potenzialità di tutti gli appartenenti a una comunità, anche e soprattutto coloro che sembrano a prima vista i più refrattari all’arte; si mette in ascolto, non si impone, non sta col ditino alzato; può facilmente essere scambiata per un oggetto di uso comune, e ne conserva intatte tutte le funzioni, ma possiede anche un’inafferrabile e ineffabile qualità in più, e questa qualità è precisamente ciò che la rende anche ‘opera’, un’opera utile (e non un esercizio formale concepito e realizzato per essere esposto e possibilmente commercializzato); è capace di illustrare con grazia la capacità – in cui fino a non molto tempo fa, peraltro, noi italiani eccellevamo, e non avevamo di fatto rivali – di fare con ciò che è a disposizione, di fare cioè di necessità virtù, di arrangiarsi e nell’arrangiarsi costruire piccoli capolavori compatti, fondare tradizioni, dare luogo a storie di origine.
In fondo, l’arte neovernacolare genera una piccola, resistente speranza perché è in grado di sfidare la logica, la razionalità, il ‘buon senso’ (quelli però dettati dal conformismo). E come scriveva lo Scerbanenco citato da Edoardo De Angelis: “La speranza è un vizio che nessuno riesce mai a togliersi completamente”.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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