Fase Tre (XVI). Liberarsi del passato

Individualismo e narcisismo non servono a nulla nella chiusura forzata della pandemia. Serve guardare all’altro, al fuori, liberarsi dell’ingombro paralizzante del passato e guardare oltre. All’oggi e al futuro.

Ciò che rende così difficile questo periodo da attraversare è, ormai lo sappiamo molto bene, l’isolamento e il distanziamento: il fatto cioè di essere rinchiusi nella nostra bolla. Bolla che si riflette nelle altre bolle, quelle culturali, che apparentemente ci rassicurano e ci confermano nei nostri gusti, ci connettono con potenziali altri che li condividono, ma che in realtà ci separano da una reale comunicazione.
Un aspetto terribilmente affascinante di questa epoca è che essa rende del tutto inefficaci tutte, o quasi, le rassicurazioni precedenti. Per esempio, la rassicurazione di una determinata forma o di uno stile del passato recente, per artisti che hanno più o meno la mia età: se già mi sembrava improponibile, ora non capisco proprio come possano continuare a rinchiudersi all’interno di quel guscio.
Rinchiudersi, ripiegarsi, rincantucciarsi: ecco ciò che veniamo invitati a fare ‒ e almeno per un altro po’ dal punto di vista fisico dobbiamo farlo, per proteggerci e per proteggere gli altri. Il problema nasce quando questa operazione diventa un’abitudine mentale, e culturale: rinchiudersi cioè, ancora più di quanto accadeva prima, nel proprio Io (ricordate? Ioioio, in qualche modo la vera maledizione del mondo dell’arte).
Ecco, ciò che questo momento storico rende particolarmente evidente è l’assoluta inefficienza di Ioioio, dell’individualismo e del narcisismo: il loro essere armi del tutto spuntate nell’affrontare questa situazione, nell’elaborare e nel proporre soluzioni. Nel costruire opere. Se l’io finisce per avvitarsi su se stesso, in un tempo come quello, dimostra tutta la propria inconsistenza, il vuoto su cui poggia e che abita.

RIVOLGERSI ALL’ALTRO

Allora, proprio stanchi e sfiniti come siamo, l’unica vera strada è sempre quella di rivolgerci agli altri, di ascoltare e di (continuare a) percepire gli altri. “Gli altri esistono”, come mi ha detto Alessandro poco fa. Aprirsi quindi invece che rinchiudersi sempre di più nelle proprie convinzioni, nei propri limiti e nelle proprie limitazioni; aprirsi anche se risulta faticoso, doloroso.
Non è un caso – l’abbiamo ripetuto spesso nei mesi scorsi, su queste stesse pagine – che le proteste e le rivendicazioni di Black Lives Matter siano coincise con i mesi della pandemia: quel movimento, come anche il nuovo femminismo, è un riflesso importante di questa apertura, di questo processo evolutivo. Ed è la manifestazione contemporanea di quella “teoria della sporta del viaggiatore” elaborata da Ursula K. LeGuin sulla scorta della studiosa Elizabeth Fisher, una teoria in base alla quale la storia si sgancia dal modello incentrato sull’Eroe e accoglie una miriade di aspetti e di identità.

Questo è in definitiva il momento per liberarci dell’azione paralizzante del passato”.

La riduzione della narrazione al conflitto è assurda”, scrive LeGuin: forme non-eroiche, del tutto aperte, intergenerazionali e comunitarie rappresentano probabilmente l’unico modo di raccontare davvero ciò che ci sta capitando, e la transizione verso ciò che verrà.
Anche qui, Antonin Artaud ci viene in aiuto: “Quando pronunciamo la parola ‘vita’, dobbiamo renderci conto che non si tratta della vita quale la conosciamo attraverso l’aspetto esteriore dei fatti, ma del suo nucleo fragile e irrequieto, inafferrabile dalle forme. La cosa veramente diabolica e autenticamente maledetta della nostra epoca, è l’attardarsi sulle forme artistiche, invece di sentirsi come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme” (Il teatro e la cultura, ne Il teatro e il suo doppio, Einaudi 1968, p. 133).Accogliere gli altri significa agganciare il “nucleo fragile e irrequieto” della vita, invece di continuare a considerare solo l’“aspetto esteriore dei fatti”, e accontentarci di quello. Questo è in definitiva il momento per liberarci dell’azione paralizzante del passato (con le sue “forme artistiche”): “Ci accorgeremmo allora che la nostra venerazione per ciò che è stato fatto, per quanto bello e valido sia, ci pietrifica, ci immobilizza e ci impedisce di stabilire un contatto con l’energia sotterranea, la si chiami energia pensante, forza vitale, determinismo dei mutamenti, mestrui della luna o come altro si voglia. Sotto la poesia dei testi, c’è la poesia vera e propria, senza forma e testo” (Basta con i capolavori, ivi, p. 195).

Christian Caliandro

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LE PUNTATE PRECEDENTI

Fase Tre (I). L’opera e la realtà
Fase Tre (II). Essere l’altro
Fase Tre (III). La paura e gli interstizi
Fase Tre (IV). Crisi e rinascita
Fase Tre (V). Ricordi e postapocalisse
Fase Tre (VI). Che cosa rimane
Fase Tre (VII). Imprevisti e responsabilità
Fase Tre (VIII). Rompere il silenzio
Fase Tre (IX). La percezione del futuro
Fase Tre (X). L’opera e il contesto
Fase Tre (XI). Aperture e imprevisti
Fase Tre (XII). Il punto di rottura
Fase Tre (XIII). Consumo e arte contemporanea
Fase Tre (XIV). La reazione dell’arte
Fase Tre (XV). Cosa vogliamo dall’arte

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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