Fuoriuscita (VIII). L’arte per tutti

Prosegue la riflessione di Christian Caliandro sulle dinamiche dell’arte, fra egocentrismo e relazione autentica.

Ogni volta che sento un artista parlare dell’arte come di un territorio eletto, privilegiato, elevato rispetto alle faccende della vita – quindi in qualche modo protetto e ideale, una sorta di tempio, potremmo dire, che ha quindi bisogno delle sue vestali e dei suoi preti: cioè di chi ha il compito di sorvegliare e salvaguardare, e anche di dire agli altri, ai profani, che cosa è e che cosa non è quel tempio, l’arte, e che cosa e chi eventualmente ci può entrare e chi invece no – ecco, ogni volta che sento questo tipo di discorso so anche che c’è una stortura in atto, qualcosa di profondamente storto, che ha a che fare proprio con la concezione e la visione generale, e che inevitabilmente poi si traduce nel tipo di opere specifiche.
Sembra abbastanza incredibile continuare a sentire questi ragionamenti nel 2021, eppure è così. Magari la forma, le espressioni, i termini possono anche cambiare e aggiornarsi, diventare più cool, ma la sostanza rimane la stessa. Ed essa è ovviamente sempre un riflesso di Ioioio, il problema dell’egocentrismo, dell’autorappresentazione di cui più abbiamo parlato qui, e che è la questione virtualmente al centro di ogni disfunzione che riconosciamo all’interno del mondo artistico. È anche lo stesso problema con cui faceva i conti Carla Lonzi quando, per esempio, si confrontava con Pietro Consagra a questo proposito: “P. L’arte in qualche modo è un Parnaso, è un giardino della spiritualità pacifica che accetta tutto. E guai a chi va vicino a un artista e lo critica negativamente.
C. Infatti. Tu dici ‘Parnaso, giardino’. Io proprio l’altro giorno pensavo a Babbo Natale, no al Parnaso. Mi sembra che la cultura tende ad aggregare degli sconosciuti su elementi esteriori a ciascuno. Anche l’arte tiene la gente lì a bocca aperta, a proiettarsi in quello che le viene proposto proprio nell’attesa del Babbo Natale. Non lo sentivo più come un fattore spirituale, ma come un mezzo della società per permettere ai suoi membri di unirsi senza neanche guardarsi in faccia e sentirsi ugualmente insieme dentro la cultura, una società, dei valori. Con la sfiducia, propria della società, sul piano dei rapporti. Mentre il piano della relazione persona a persona funziona nell’ambito privato e basta. Sul piano sociale è stato negato, la società si è costituita attraverso un altro tipo di contratto che non è quello della verità reciproca” (Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, et al./Edizioni, Milano 2011, pp. 19-20).

L’arte ‘per tutti’, fondata sulle relazioni autentiche e paritarie, cozza direttamente con la nozione di egocentrismo, che richiede invece la totale concentrazione sull’io e sulla sua rappresentazione”.

L’arte come “Parnaso”, come “giardino” ideale e idealizzato, quindi chiuso ermeticamente a ogni influsso su e dalla realtà, e sterilizzato da ogni conflitto, vs. una versione dell’arte totalmente calata nella vita, intesa come “verità reciproca”, dunque come piano della relazione autentica.
Lonzi quindi, quaranta e già cinquanta anni fa, aveva perfettamente riconosciuto la questione al centro dell’arte, che non solo non si è risolta in questo arco di tempo ma è cresciuta anzi a dismisura. Non era l’unica, naturalmente. Per fare un altro esempio, è ciò che nel 1974 pensava e scriveva Ettore Sottsass, quando distingueva un’arte e una cultura come beni (di consumo) “superiori” da un’arte e una cultura realmente per tutti: “Oggi, (…) quando uno pensa di muoversi in un clima esclusivo, speciale, misterioso come se fosse magia, dice di se stesso che è un ‘artista’ e naturalmente se la società intorno lo conforta in questo pensiero, se la società intorno, per convenienze segrete o meno, per affari nascosti o meno, per politiche oscure o meno, lo aiuta, lo rassicura, lo consola, tanto più lui (…) svilupperà dentro se stesso e intorno a sé una cultura del magico, voglio dire una cultura nella quale lui si trovi solo e padrone. Le cose poi possono andare ancora più lontano, perché può succedere che convenga o anche si dimostri necessario che la cultura del magico non si perda ma sia in qualche modo trasmessa: si possono formare dinastie, sette, club, associazioni e finalmente caste e anche scuole speciali” (Definizione di design, in Molto difficile da dire, Adelphi 2019, p. 247); e poi: “Da ogni parte si prenda, (…) a me pare che la cultura non sia un bene ‘superiore’: non mi pare che la cultura sia fatta di materia speciale, né soprannaturale, né magica, né niente. A me pare che la cultura sia un bene che – un giorno o l’altro – dovrà essere considerato come un bene qualunque, un bene come un altro, che tutti possono produrre per sé e per gli altri e al cui progetto tutti possono e hanno diritto di partecipare, inventando, negando, facendo casino…” (Il popolo lontano, ivi, p. 272).

DALL’IO ALLA RELAZIONE CON L’ALTRO

L’arte “per tutti”, fondata sulle relazioni autentiche e paritarie, così come la cultura “come un bene qualunque”, al cui progetto e alla cui realizzazione contribuiscono tutti, cozzano direttamente con la nozione di egocentrismo, che richiede invece la totale concentrazione sull’io e sulla sua rappresentazione (“una cultura nella quale lui”, l’artista, “si trovi solo e padrone”), da cui discenda la concezione dell’arte come una sorta di Empireo. Sono chiaramente due visioni antitetiche, inconciliabili.
Tanto più quando ci si rende conto – come Carla Lonzi fa quando, nel suo diario dal 1972 al 1977, rende conto del crescente dissidio con Carla Accardi (la Ester del testo) e delle sue motivazioni profonde – che alla base dell’egocentrismo c’è la costante richiesta di approvazione, cioè il bisogno di adorazione da parte degli spettatori: “L’artista ha prestigio al punto da richiamare su di sé l’identificazione di un altro perché sembra che non ne richieda l’umiliazione, anzi lo gratifica, mentre esiste perché usufruisce del meccanismo che lo pone al centro di un’umanità costretta a dimenticare se stessa, e a riconoscersi illusoriamente in lui” (1972, in Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, 1978, p. 49); “Cerco di frenare l’invadenza di Ester, ma lei non si offende mai, incassa e ricomincia ad adoprare la mia lucidità. Infatti la mentalità del ‘profitto’ (termine di Ester) è più forte di tutto in una donna che ha scelto l’affermazione di sé con l’uomo e attraverso di lui (…) Ester si è sempre tenuta un angolino di ‘profitto’, ed è perché si manteneva quell’angolino che io sentivo, attraverso le maglie della sua affettuosità, un attimo di freddezza, anzi di gelo. In quell’attimo anche lei mi considerava sua spettatrice. D’altra parte sulla pittura Ester ha avuto il mito più forte della sua vita e a quello ha sacrificato tutto. Avrebbe sacrificato anche me” (ivi, pp. 55-56).

Christian Caliandro

LE PUNTATE PRECEDENTI

Fuoriuscita (I). L’arte aperta
Fuoriuscita (II). Artista e spettatori
Fuoriuscita (III). Carla Lonzi e il rifiuto del successo
Fuoriuscita (IV). Relazioni e reciprocità
Fuoriuscita (V). Gli artisti e la contraddizione
Fuoriuscita (VI). Il metodo dell’incertezza
Fuoriuscita (VII). Critica e coscienza

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

Scopri di più