La bellezza bene-rifugio dell’arte del presente. Fenomenologia di una regressione culturale

Quando i concetti di arte e industria artistica si sovrappongono, la prima ne esce inevitabilmente con le ossa rotte. E si trasforma

E quindi, la bellezza è un rifugio – estremo, dolce, comodo. La bellezza, proprio quella bellezza che era stata rifiutata, rinnegata, cancellata delle avanguardie e dalle neoavanguardie, in mille modi rientra oggi dalle finestre e dalle porte di servizio. Chi potrebbe mai dirsi, infatti, contro la bellezza? Chi dichiarerebbe di essere sfavorevole ad essa? Questa, intanto, come più volte peraltro abbiamo notato su queste pagine, è una delle manifestazioni di quanto questo periodo storico sia ‘regressivo’. Voglio dire, dalla politica alla società alla cultura, è piuttosto evidente che non siamo in presenza di una progressione, ma opere e idee tendono a tornare indietro, ad attestarsi su posizioni di conservazione e di difesa. 

Marcel Duchamp con l’esemplare non ancora completato di da o di Marcel Duchamp o Rrose Sélavy (Scatola in una valigia) 1935–41, in casa di Peggy Guggenheim, 440 East Fifty-first Street, New York, agosto 1942. La fotografia è in origine pubblicata in Time, 7 settembre 1942
Marcel Duchamp con l’esemplare non ancora completato di da o di Marcel Duchamp o Rrose Sélavy (Scatola in una valigia) 1935–41, in casa di Peggy Guggenheim, 440 East Fifty-first Street, New York, agosto 1942. La fotografia è in origine pubblicata in Time, 7 settembre 1942

La bellezza, bene rifugio nell’arte del presente

In questo senso, la bellezza non è solo un rifugio ma più precisamente un bene-rifugio: in mancanza di altre certezze e appigli, paradossalmente quella diventa un baluardo. E lo diventa proprio nella sua ridefinizione (una volta inconcepibile) in quanto kitsch. La tanto a lungo screditata Scuola di Francoforte in fondo aveva ragione, e su più fronti: almeno questo, l’esaurimento del postmoderno lo lascia intravedere… Non solo l’arte e l’industria artistica non sono affatto la stessa cosa, ma quando a tappe forzate la seconda soppianta completamente la prima, ovviamente anche il concetto stesso di arte risulta del tutto trasformato.
La concentrazione esclusiva sul prodotto (anche e forse soprattutto quando nell’arte contemporanea esso si presenta come processo) non può che portare a una certa ottusità, dell’opera, di chi la fa e dei suoi spettatori. Tutti sommariamente e soddisfatti, le chiedono un messaggio chiaro e univoco o anche nessun messaggio, le chiedono una patente di intelligenza e di esclusività e di privilegio sociale e di mondo intellettual-chic. (In quest’ottica, Marcel Duchamp che poneva la secca alternativa tra arte “come plagio o come rivoluzione” risulta ai più in quest’epoca un vecchino simpatico ma un po’ ridicolo, fuori tempo e fuori moda: ma certo, visto che oggi puoi avere il plagio e la rivoluzione!, e meglio ancora, il plagio come rivoluzione!, e la rivoluzione come plagio!) ((A patto però, manco a dirlo, che la rivoluzione non sia poi così tanto rivoluzionaria, perché il mettere in discussione tutta la cornice è veramente maleducato e uncool, non si fa…))

Memphis. 40 Years of Kitsch and Elegance. Exhibition view at Vitra Design Museum Gallery, Weil am Rhein 2021
Memphis. 40 Years of Kitsch and Elegance. Exhibition view at Vitra Design Museum Gallery, Weil am Rhein 2021

Il consumo della bellezza e il patrimonio culturale

Anche la sovrapposizione della ‘bellezza’ con il fatto che essa debba essere consumata necessariamente dal maggior numero di persone, fenomeno in cui noi italiani siamo diventati eccellenze assolute – per cui entrando per esempio nel museo importante-famoso-famosissimo siamo completamente spersonalizzati, ridotti a parte di un gregge che non ha alcun diritto alla fruizione delle opere, un gregge che deve marciare da un capolavoro all’altro senza fermarsi mai e senza capire niente, tanto i biglietti sono già pagati e staccati e prima uscite meglio è – ecco questo dare per acquisito il consumo di bellezza e la bellezza consumata ha come inevitabile risultato il fatto che poi il modello del consumo si sia esteso praticamente a tutte le opere (non solo visive). 
Scriveva ieri Paolo di Paolo: “Nella minuscola porzione o bolla di mondo di cui faccio parte per mestiere, di libri si parla continuamente. Spesso perdendo di vista l’indifferenza (che a tratti mi pare perfino sana) del resto degli umani agli oggetti su cui continuiamo a scambiarci veloci, approssimativi, esteriori, stucchevoli o irritati, ghignanti pareri tra addetti ai lavori e ai livori. Com’è il nuovo libro di? Hai visto, è in classifica? Ma secondo te va allo Strega? No, forse va al Campiello. Forse da nessuna parte. I libri di cui parliamo, in larga parte, non li acquistiamo: arrivano. Pacchi di carta imbottita e gialla, scatole che si accatastano nelle portinerie. (…) Non è facile amare il troppo, l’esubero, la ripetizione. La passione calda si raffredda, o finisce per conservare una tepidezza costante – l’anticamera dell’assuefazione. Nelle redazioni dei programmi televisivi o radiofonici passano ogni giorno decine di libri, finiscono nelle mani dei conduttori per il tempo della registrazione o della diretta, poi vengono abbandonati. Nelle officine degli editor, le prime bozze si riempiono di post it, poi diventano seconde bozze, si va in stampa: è passata un’altra stagione, e il tempo per leggere altro si è sfarinato, non c’è più. Non è carino dirlo, anzi è fastidioso, ma è così. È grave? No, è inevitabile” (Paolo Di Paolo, In Italia non c’è più nessuno con cui parlare di letteratura, “Limina”)
Il consumo come unica forma di relazione con l’opera, e con il linguaggio di cui è fatta. L’opera come oggetto di consumo esiste solo quindi nella sua presenza mediatica, al massimo se è in grado di scatenare qualche scandaletto o qualche shitstorm sui social per un giorno o due: e quindi deve la sua esistenza solo e soltanto a motivi extra-artistici, cioè extra-opera.
Non so, mi pare che una volta tutta questa faccenda si chiamasse alienazione

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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