La narrazione di cosa è nuovo ha abbandonato il campo dell’arte, in favore di tecnologia e scienza

Se trent’anni fa nuovi erano i Nirvana, o David Foster Wallace, ieri il nuovo lo faceva Steve Jobs e oggi lo elabora Elon Musk, o direttamente l’AI. Intanto gli artisti producono opere mastodontiche e il pubblico celebra Oppenheimer

Ho in grande antipatia quei percorsi tutti già tracciati, i racconti spediti di vittorie e successi, ogni cosa già programmata e orientata al risultato, mai un fallimento né una caduta né un dubbio… Non solo non mi entusiasma e non mi ha mai entusiasmato, ma provo solo fastidio e irritazione. Ciò che trovo invece entusiasmante è vedere qualcosa che si crea praticamente dal nulla – qualcosa che prima non esisteva– contro ogni aspettativa. Qualcosa che quando viene fuori è apparentemente sbagliato, totalmente sbagliato, e poi ti accorgi che per guardarlo e considerarlo bene devi praticamente riorientare tutto il sistema di riferimento precedente (ammesso che sia ancora utilizzabile).
Questo non ha a che vedere con la bravura, con l’efficacia di un artista o di uno sportivo, quanto piuttosto con il processo complicato che porta all’opera. Questo processo è fatto ovviamente di errori, di deviazioni, di interruzioni e di riprese, di ritorni. 

Opere e artisti titanici

Ancora oggi mi capita di leggere da qualche parte l’aggettivo “titanico” riferito a un artista o a un’opera. Già vedere questi autori ottantenni o giù di lì che si affannano a dipingere quadri lunghi sette-otto metri pieni zeppi di roba, o a realizzare installazioni mastodontiche, è abbastanza penoso. Ma sentire gente che ha una quarantina d’anni meno di questi qua che approva ed esalta un’attitudine del genere mi sembra un pochino ridicolo. Se quella ‘posa’, cioè, già fuori tempo massimo di suo – la posa concentrata, ingrugnita, pensosa -, se quella postura la adotta un artista quarantenne, la boria risulta solo e soltanto fastidiosa. Avrei voluto dedicare tutto il pezzo a Kurt Cobain, nel trentennale della sua morte. Ma francamente, dopo aver assistito per due-tre giorni al diluvio di ricordini, articolini, ‘panini’ al TG su chi è stato Cobain per un paio di generazioni e su quanto fosse sensibile, lui con i capelli sporchi e il maglione beige circondato dai fiori che suona la chitarra e canta nell’MTV Unplugged, Courtney in ospedale a Roma che cammina di fretta nel corridoio e prima di raggiungere il marito in coma nell’area riservata fa il dito medio ai giornalisti, al massimo qualche scena dal video di Come As You Are con la pistola che galleggia nell’acqua e lui con i capelli fucsia, e analisi cultural-sociologiche un tanto al chilo, mi sono detto che non ne avevo poi tutta questa voglia. 

Nirvana, Nevermind session, 1991 ©Michael Lavine 2020
Nirvana, Nevermind session, 1991 ©Michael Lavine 2020

Il grunge una occasione di consumo

Mi sembra infatti che il legare così rigidamente il ricordo alla ricorrenza (il decennale, il ventennale, il trentennale…) sia in fondo un modo ulteriore di trasformare per l’ennesima volta l’esperienza di queste opere d’arte – nello specifico, le canzoni e i dischi dei Nirvana, e in generale la loro ricerca creativa – in un’occasione di consumo. Si celebra la scomparsa, il suicidio, ed ecco qui pronta l’icona, la leggenda, la figurina. Che è inevitabilmente quanto più lontano possibile e immaginabile proprio da quella ‘ricerca’, – e dall’idea stessa di ricerca, se vogliamo. In questo senso, inquietante ma a suo modo illuminante mi è sembrata la versione AI di Kurt Cobain, intravista su YouTube un anno fa circa: nella sua assurdità di fantasma disincarnato, di simulazione che mette insieme e assembla elementi fintamente ‘tipici’ per confezionare un ‘prodotto’, mi sembra molto coerente con lo stile delle celebrazioni di oggi. 

Oppenheimer non è un capolavoro

È l’entusiasmo ingiustificato a sembrarmi, del resto, una finzione insopportabile – soprattutto in questi tempi. Voglio dire, ma che cosa c’è di entusiasmante nelle mostre e nei film e nella musica e nei libri che si vedono in giro, tranne qualche eccezione? (Per “si vedono in giro” intendo quelli che vengono maggiormente promossi dai media e che vengono dunque maggiormente recepiti/fruiti). Persino Oppenheimer è un bel film ma non quel capolavoro che è stato definito per mesi e mesi: Interstellar, per dire, è un vero capolavoro che dieci anni fa, quando è apparso, veniva considerato anche abbastanza goffo. Certamente, Oppenheimer si giova di un maggiore aderenza allo zeitgeist: quando mai, appunto, dieci o venti anni fa sarebbe stato acclamato dal pubblico e dalla critica un filmone di tre ore su un gruppo di fisici maschi che si rinchiudono in una cittadina scarna e spoglia costruita in fretta e furia dal genio militare nel bel mezzo del deserto americano, e della Seconda Guerra Mondiale, per costruire la prima bomba atomica della storia, e sul capo di questi scienziati che dieci anni dopo viene perseguitato da un branco di senatori per le sue pregresse (e alquanto timide) simpatie comuniste, e su quello stesso capo che decenni prima, sulla scorta della rivoluzione introdotta da Einstein, si fa attraversare dalle primissime illuminazioni di una scoperta fisica che cambierà il mondo?

Cillian Murphy alias Oppenheimer
Cillian Murphy alias Oppenheimer

La narrazione sul nuovo: dall’arte alla scienza fino alla tecnica

E questo avviene anche – non solo, ma anche – perché evidentemente è cambiata nel frattempo, nel corso dell’ultimo ventennio, la narrazione di che cos’è il nuovo. Dal campo artistico e culturale, infatti, il nuovo si è trasferito nel territorio della tecnologia e della scienza. Se trent’anni fa nuovi erano i Nirvana, o David Foster Wallace, ieri il nuovo lo faceva Steve Jobs e oggi lo elabora uno come Elon Musk, per dire. O direttamente l’AI: almeno, così mi sembra. Ed è quindi logico che la narrazione cinematografica lussuosa e dotata di potenti mezzi si concentri oggi su un Oppie che coordina una squadra fantastica per arrivare dopo anni di duro lavoro collettivo al bel risultato di veder splendere il sole di notte sulla mesa (Trinity), e per poi pentirsene amaramente a distanza di due settimane.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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