Cosa fa l’arte mentre nel mondo imperversano le guerre?

Deresponsabilizzazione collettiva, cinismo, informazione drogata: l’arte e la cultura sembrano aver sposato in pieno, al di là delle dichiarazioni di facciata, l’intero sistema di valori del turbocapitalismo

Ancora sulla responsabilità – o meglio, sulla de-responsabilità contemporanea.
È il senso morale, in fondo, che sembra difettare più che altro. Per anni, da bambini e da adolescenti, ci siamo chiesti in classe (almeno quelli che stavano un pochino attenti) come potesse essere accaduto, cento, novanta, ottant’anni fa, che interi popoli e nazioni avessero accettato la dittatura, la violenza di massa, i campi di concentramento, e infine la guerra.

La vicinanza con la guerra

E ce lo chiedevamo perché queste cose sembravano lontanissime, distanti più o meno come gli alieni o come il Medioevo; perché noi eravamo – o ci sentivamo – abbastanza al sicuro, protetti, al calducciodentro un sistema che consentiva di guardare dall’esterno, a distanza di sicurezza, questi fenomeni – che quindi sembravano quasi del tutto incomprensibili a menti piccole, disinformate, un po’ svogliate. Ecco qui invece, nel 2025, mostrato in 4K come funziona (: e noi non siamo più bambini, né adolescenti).

La responsabilità dell’informazione e delle immagini

Attraverso una capillare opera di deresponsabilizzazione collettiva, appunto; una distorsione sistematica dell’ecosistema informativo e mediatico; l’inoculazione costante, per decenni, del cinismo come strumento fondamentale per affrontare il mondo; la minaccia dell’incertezza economica e della sanzione sociale, l’intimidazione, la spinta ossessiva al conformismo; una degradazione progressiva del dibattito politico e della formazione; un’ipersemplificazione dei concetti e delle connessioni. E – last but not least– la collaborazione essenziale dell’arte e della cultura a questa delicata, e al tempo stesso brutale, operazione.

Arte e politica: quale legame?

Intanto, si scredita il legame tra arte e politica, da un certo punto in poi (gli Anni Ottanta, gli anni del riflusso?): “è una cosa che non si fa, non è cool, non è glamour, è vecchia e polverosa, basta non se ne può più, è il tempo dell’edonismo, ecc. ecc.”. L’arte non deve quindi avere a che fare con i problemi e le questioni della realtà sociale ( = di tutti); l’arte deve celebrare l’individuo e l’individualismo, ioioio, le sue ossessioni e i suoi desideri, possibilmente i suoi soldi e i suoi successi. Chi se ne frega, onestamente, delle sue fragilità, dei suoi fallimenti, dei suoi incubi.
A: Eh ma noi abbiamo ancora almeno un paio di generazioni di artisti che sono ormai storici e storicizzati, i quali si erano impegnati in tutt’altra direzione, e mica ce ne possiamo sbarazzare così…”. “B: Benissimo, questi infatti saranno i maestri, premiati e riveriti, ma sostanzialmente ininfluenti d’ora in poi. Gli altri, gli altri vanno scoraggiati dal percorrere la medesima traccia; vanno deviati, depistati e disillusi, e soprattutto vanno indotti con ogni mezzo a ricercare l’affermazione e il riconoscimento seguendo le nostre direttive – non le loro. I nostri sogni, i nostri indirizzi.”

In piazza per Gaza. Photo Luca Bonaventura
In piazza per Gaza. Photo Luca Bonaventura

L’arte e l’industria culturale

Contemporaneamente (affermando da più parti e in quasi tutte le sedi, senza timore del ridicolo, che in fondo Adorno e Horkheimer non avevano capito granché) arte e cultura si adeguano sempre di più ai dettami e alle regole dell’industria culturale, fino a identificarsi totalmente con essa: diventano cioè in tutto e per tutto beni di consumo, quantificabili, misurabili e scambiabili, rispondendo dunque solo e soltanto alla logica del mercato e del profitto; “in tutto e per tutto” significa che ogni altra dimensione viene erosa, cancellata e dimenticata, in particolare il loro stesso – di arte e cultura – costituire una (la) possibilità altra di esistenza e di coesistenza nel mondo. Un fenomeno che, per esempio, Germano Celant aveva compreso e descritto molto bene più di quindici anni fa: “L’arte, definita per la sua forza di alterità e per il rifiuto a essere ‘professione’ comunicazionale, ha subìto un processo di adattamento al prodotto di consumo. Si è lasciata trascinare in un mercato che l’ha ridotta a merce di lusso, così da identificarsi sempre più con l’utile e con il funzionale, considerati questi ultimi, sino agli anni cinquanta, momenti estranei e secondari alla sua esistenza (…) La caduta della dimensione ideale e l’inaugurazione di una dimensione funzionale dell’arte implicano l’avvicinarsi a un’equivalenza tra valore metafisico e valore strumentale” (in Artmix. Flussi tra arte, architettura, cinema, design, moda, musica e televisione, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 1-2).

Arte e turbocapitalismo

Quando perciò questa logica del progetto spinta alle estreme conseguenze del turbocapitalismo giunge al punto (inevitabile, viste le premesse; e come poteva, d’altra parte, essere altrimenti?) di concepire e praticare sterminio e genocidio come fonti di affari e guadagno, l’arte e la cultura si trovano ovviamente sprovviste di strumenti seri per far fronte a questa situazione – per la semplice ragione che esse di fatto condividono (al di là delle dichiarazioni di facciata, e delle mostre a tema se è per questo) l’intero sistema e orizzonte di valori di quella macchina politico-social-militare-economica, e non sono in grado di riconoscere né di occupare una posizione che sia autenticamente contro quella logica, dalla quale contrastarla cioè in modo efficace e concreto (in una parola: rivoluzionario).
Per “fare fronte a” qualcosa, devi trovarti innanzitutto da un’altra parte rispetto ad essa – una parte radicalmente diversa.
rrivati questo punto ripartirei, magari, da Guernica e da George Orwell, e arriverei almeno fino a Hans Haacke, Philip Guston e Apocalypse Now, per esempio, a proposito di: che cosa l’arte può e deve fare in situazioni (traumatiche) del genere.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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