L’arte contemporanea deve guardare al futuro 

Il mondo di oggi è perso in un presentismo culturale che soffoca le prospettive verso il futuro. Piuttosto che essere solo decorativa, un’opera d’arte dovrebbe assumere una posizione e farsi vera “forma sperimentale di vita”

Non si può compiere nessuna giustizia storica se non si impegna il futuro. Non ci può essere nessuna responsabilità altrui e passata verso il nostro presente se non nella misura in cui ve n’è una nostra verso l’avvenire. Scegliere una discendenza vuol dire scegliere una tradizione1. Così Franco Fortini concludeva le sue Precisazioni nel 1962: e, va detto, sessantadue anni dopo queste parole non hanno perso nulla della loro forza e della loro attualità. L’assunzione di responsabilità – sempre: ma in particolare nei periodi di grande cambiamento, come senza dubbio è quello attuale – si esercita sul presente, ma ancora di più sul futuro. È chiaro come un’idea (e una pratica) del genere, che connette organicamente le diverse dimensioni del tempo, collide e stride con il presentismo attuale. Un presentismo che ha già una sua storia molto lunga e, per così dire, piuttosto polverosa: è un presentismo, infatti che dura da oltre un quarantennio, estendendo la sua ombra avanti e indietro, continuamente. 

Il presentismo e la perdita di responsabilità dell’arte contemporanea 

Il presentismo è ontologicamente contrario al concetto di “giustizia storica”, allegramente disimpegnato, e felicemente irresponsabile. Solo che questa sua impoliticità pretesa è, come tutti (anche i bambini) ormai sanno, una specie inquietante di posizione politica: retriva più che retrograda, oscurantista, irrazionale. Soprattutto, questa impoliticità è fondata sull’abolizione totale di quella legge non scritta, delle avanguardie come delle neoavanguardie, che recita: “l’arte è la forma sperimentale della vita”.
Attraverso le opere (almeno quelle che funzionano come si deve), gli artisti prima, e tutti quelli che le fruiscono poi, sperimentano, appunto, una vita possibile al di là di quella contingente. Sperimentiamo ciò che potrebbe essere. Il restringimento progressivo del campo dell’opera al territorio decorativo-mercantile, la limitazione delle sue possibilità e l’amputazione della sua operatività – vale a dire: della sua capacità trasformativa ed evolutiva – spiega molti aspetti, anche del restringimento della nostra capacità immaginativa. Della capacità, cioè, di immaginare una diversa condizione del presente e dell’avvenire. Eppure, pochi anni dopo le affermazioni di Fortini, queste istanze si erano anche affermate prepotentemente nel campo dell’arte visiva, lasciando presagire non anni ma decenni: un’intera epoca nuova del rapporto tra arte e vita: “…tutto si riconduce a ‘costruire’ l’idea intuita. Lo sforzo è quindi portato all’intento di comunicarla mediante un medium che non conceda nulla all’ambiguità e all’apertura semantica. Ne deriva una fisicizzazione dell’idea, un’idea tradotta ‘in materia’, un modello, formato ingrandito, dell’apprendimento mentale e fattuale, naturalmente non una fisicizzazione vitalistica e orgiastica, ma ‘mentalistica’. L’autore, ponendosi alla convergenza fra idea e immagine diventa il vero protagonista dell’evento, si integra all’attualità ed al divenire evolutivo delle sue idee. (…) Così il cinema regredisce alla sua manifestazione più libera ed elementare, una singola immagine che si muove. (…) Piano sequenza illimitato che diventa ora in Warhol e Godard un cinema sequenza illimitato, un continuo avvicendarsi di azioni e di contrazioni finte e vere, di apprensioni cinematografiche ostentate come possibili acquisizioni del e sul reale, tali da definire ogni evento, di n metri di pellicola presentati al pubblico, la ‘fine di un inizio’ (Godard)2

Franco Fortini
Franco Fortini

La necessità di andare oltre il valore decorativo dell’opera d’arte 

A partire dagli Anni Ottanta, l’inversione di tendenza, dapprima camuffata con le spoglie neoespressioniste e citazioniste, poi chiarita con la caduta di questi orpelli dalla natura del nuovo post-concettualismo che ha caratterizzato buona parte degli ultimi trent’anni… Tranne che in qualche luminosa eccezione, l’opera ha teso e tende decisamente verso il decorativo, anche quando si ammanta di statement e dichiarazioni, di intenti e di intenzioni. Ma l’essere “forma di vita”, il modello perfetto per provare un modo-di-esistere, e di coesistere, diverso, non è affatto uno sport o un diversivo: in un momento del genere, in un’epoca del genere, è l’aspetto invece da ricercare (da ritrovare) con più assiduità e costanza. Si potrebbe persino pensare, anzi, che proprio questa rinuncia generalizzata da parte dell’opera contemporanea sia uno dei fattori che ha contribuito all’aumento di intensità nella tensione e nella conflittualità: un’arte (e una cultura) acquiescente sono infatti – è inevitabile – parte integrante dell’arretramento, non della progressione. Indipendentemente da quanto vengano valutate le opere.  

Christian Caliandro 

1Franco Fortini, Precisazioni, in Verifica dei poteri, Il Saggiatore 2017, p. 51 
2Germano Celant, Arte povera, Galleria De’ Foscherari, Bologna 1968, pubbl. in Precronistoria 1966-69, Quodlibet 2017, p. 66

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #77

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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