Dialoghi di Estetica. Parola all’artista Martina Antonioni

Intima e lirica, la pittura e la scultura di Martina Antonioni sono fatte di decostruzione continua, di poesia, di seni e limoni. Ne abbiamo parlato con lei

Con le sue opere Martina Antonioni (Milano, 1986) dà forma alla propria indagine sull’intimità poetica prediligendo soprattutto le possibilità offerte dalla pittura. Formatasi presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, ha partecipato a diversi workshop: con Tim Rollins (2011), con Grupo Etcetera (2011), con Nomedas e Gediminas Urbonas (2010). Tra le mostre collettive alle quali ha partecipato vi sono: Waw!, Federico Rui Arte Contemporanea (Milano, 2021); States of Mind, a cura di Petra Cason, Palazzo Valmarana Braga (Vicenza, 2019); Michelangelo Reload, a cura di Alessandro Romanini, CAV – Centro Arti Visive, (Pietrasanta, 2019). La sua ultima mostra personale si è tenuta nel 2024 presso la galleria Federico Rui Arte Contemporanea a Milano. Muovendo da uno dei principali temi alla base della sua poetica, l’indefinita imperfezione che caratterizza la vita, questo dialogo porta alla luce altri aspetti che la caratterizzano: l’interesse per le possibilità della pittura, il ruolo delle regole, l’attenzione per lo spazio, l’influenza della poesia.

Martina Antonioni, Io non soffro per amore, 2019, acrilico, matita, bomboletta spray, smalto ad acqua e olio su tela, cm 105 x 55
Martina Antonioni, Io non soffro per amore, 2019, acrilico, matita, bomboletta spray, smalto ad acqua e olio su tela, cm 105 x 55

Intervista a Martina Antonioni

Il tuo modo di fare arte, si vedeva già nelle tue prime opere basate sull’uso della fotografia e risalta ancora di più nei tuoi dipinti, non ammette un eventuale spazio per l’ornamento.
Penso che valga molto la possibilità di lavorare godendo appieno di quello che accade, senza trascurare che le cose possano anche cambiare senza che te lo aspetti, come succede naturalmente nella vita di tutti i giorni. Fare pittura non è solo questione di riuscire ad ottenere una forma, ma piuttosto trovare il modo più soddisfacente per riuscirci. 

Dando seguito a questa inclinazione ottieni che le tue tele si popolino di “segni che vanno in pezzi”.
C’è un insegnamento che ho ricevuto quando ho iniziato a studiare pittura che mi ha molto influenzata: dimenticarmi tutto quello che sapevo. E ciò vale anche per eventuali pretese dal punto di vista dei materiali e dei mezzi per fare arte. In qualche modo, le mie opere mostrano imperfezioni, errori, trasfigurazioni. Infatti, non credo si possa sottovalutare tutto quello che è necessario affrontare per riuscire a farle. Il fatto che da un’opera possano trapelare elementi e soggetti o persino dettagli rispetto a quello che si fa, è in un certo senso una conquista. Quei segni vanno in pezzi per più motivi, per via dei materiali e dei colori che uso. Prendiamo il bianco: lo so usare in modo soddisfacente poiché me ne servo da moltissimo tempo ed è un colore che mi permette di lavorare pittoricamente quasi come se fossi una scultrice. Oppure, consideriamo l’uso dei cartoni: mi permette di liberare la pittura, di ottenere esiti che altrimenti potrei forse solo immaginare.

Sembra che tu reagisca a ogni ostacolo o vincolo attivandoti per superarlo non appena lo incontri. 
In qualche modo, va così. Reagisco a più costrizioni, che sono anzitutto fisiche, attraverso la possibilità stessa di lavorare in modo ancora più profondo sull’ampliamento delle forme. Per me si tratta anche di affrontare l’influenza di più regole. Per esempio, se non ho spazio intorno a me, lo cerco sulla tela.

Che ruolo hanno le regole nel tuo lavoro?
Alcune le frequento, anche se a conti fatti potrei dirti che quasi non me ne accorgo. So che vi sono, perché poi ne vedo le tracce. Altre non le ho più. Con l’andare del tempo mi sono accorta di averle modificate e trasformate. Avere delle regole serve ad essere liberi. Almeno, così va per me. Rinunciare a qualcosa per andare da un’altra parte è qualcosa di profondamente stimolante. 

Forse, è in ragione di questa inclinazione verso la libertà che la tua attività risulta anche una indagine permanente sullo spazio. Penso in particolare alle sculture a forma di seni che dissemini un po’ dappertutto. Come ha avuto inizio la loro produzione?
La loro è anzitutto la storia di un piccolo limone che mi era rimasto a casa durante un periodo di ritiro, dovuto a un problema di salute. Lo scrutavo, quasi estasiata, davanti alla sua buccia gialla. Più osservavo, più mi rendevo conto che quella sfera gialla e rugosa non era solo un frutto. Mi accorgevo che somigliava molto a un seno. Da quel momento ho iniziato a lavorarci, cercando di trovare il modo più soddisfacente per dare forma a questa mia idea. Prendere i limoni e seccarli, lavorare alle loro forme mediante il gesso. Ma non si è trattato solo di un lavoro scultoreo.

Perché? 
Per poter andare avanti nella produzione (che ormai dura da quasi tre anni), avere molti limoni e dare forma a partire da ciascuno a un seno, ho coinvolto più persone. Ho chiesto loro di tenerli da parte e attendere pazientemente che essicchino, di conservarli e poi farmeli avere. È un’opera frutto di una collaborazione al femminile. Un lavoro corale, che parte dagli scarti, che sono stati trasformati in una costellazione in divenire di seni, che come una forma aliena, colonizza lo spazio e diventa relazione. È un lavoro di relazione e pazienza. È una attività svolta in più fasi, attraverso la quale ho anche sviluppato una mia idea intorno alle possibilità della installazione basata sulla scultura. 

Di quale idea si tratta?
Sono interessata a quel fraintendimento che determina la presenza stessa di tutti quei limoni/seni disposti su una grande superficie: sembrano quasi dei reperti di vita marina, materiali naturali appartenenti alle profondità acquatiche… Poi, lasciami dire, c’è anche tutto un mistero che è proprio del frutto e che si ripresenta con ciascuna scultura: ogni metà del limone secca con modalità proprie e prende forme sue, diventando anche molto diversa dall’altra metà. Ciò è decisivo anche per quella condivisione tra superfici, quella della buccia del limone e quella della pelle, che poi cerco di stabilire.

A risaltare è anche un altro aspetto, la perdita di un centro. Anche se, l’impressione che ho è che sia solo un esito temporaneo, perché poi tu lavori sempre sull’accentramento.
In qualche modo è necessario non farsi sopraffare. Come se fossi immersa. Accade qualcosa di simile a quando ti trovi in acqua e stai nuotando: dai un colpo di piedi per evitare di finire sott’acqua. Un po’ come se riuscissi a reagire a un eventuale pericolo di annegamento. 

Il tuo modo di esprimerti si basa spesso sull’uso di pochi colori. Penso, per esempio, alla tua opera Io non soffro per amore: vorremmo dire vi siano un celeste, il bianco e il rosa. Ma poi dobbiamo rivedere tutto in relazione al rosso del fiore e a un verde che quasi non si coglie. Eppure, c’è.
Si tratta di arrivare molto vicino – non so se poi vada così, ma almeno ci provo – alla possibilità di fermare qualcosa che si disgrega. I singoli elementi che descrivi sono un po’ il corrispettivo cromatico e segnico dei miei tentativi di fissare delle deflagrazioni. Quasi come se il colore potesse permettermi di fare delle istantanee su tela di moti e detonazioni.

Nella tua pratica artistica risalta anche l’influenza della poesia. 
Ne leggo davvero tanta, non solo per amor di silenzio, ma soprattutto perché apprezzo il modo in cui ogni singola parola riesce a essere qualcosa di immenso nonostante sia parte di un esile testo. C’è un lato della poesia che considero come possibile evidenza di verità. Farla, penso voglia dire riuscire a essere sinceri. Leggo, spesso rileggo, e per quanto possa essere quasi marmorea, quella parola è ogni volta il segno di un’altra possibilità. È incisa ma è anche vivissima. 

Tu lavori molto sulla presentazione di figure e colori, lasciando che il frutto pittorico possa mischiarsi con quello illustrativo. Il risultato – ed è anche per questo che menzionavo la poesia – mi sembra si possa considerare quasi come un insieme di “versi pittorici”.
Può darsi. Pur funzionando per immagini, mi nutro di pause e di preziosi e imprescindibili momenti nei quali mi fermo. Credo che questo ritmo in qualche modo si traduca anche sulla tela, come fosse poesia o musica, fatta di figure e colori.

A guidarti non sembra essere solo una eventuale ispirazione ma anche una robusta ostinazione. Voglio dire, per quanto possano essere minimi, i segni che tracci sono comunque espressione di una tua necessità. Lo sono soprattutto perché ti consentono di insistere sulla stessa potenzialità del fare pittura.
C’è una sorta di fluidità operativa che mi guida, ossia l’accettazione della formazione e della fissazione del colore e dei segni sulla superficie. Per me si tratta, più o meno consapevolmente, di lasciare spazio alla mia necessità di non capire troppo ciò che ho fatto. A seguire vi sarà il mio modo di guardare e rendermi conto – solo dopo – delle mie azioni. Il fatto stesso che io cerchi una direzione, ma che poi questa sia percorribile proprio perché sto facendo l’opera. La pittura accade.

Davide Dal Sasso

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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