Dialoghi di Estetica. Parola a Linda Carrara

Intervista alla pittrice Linda Carrara, impegnata in una indagine attorno al legame tra arte e decorazione.

Linda Carrara vive e lavora tra Bruxelles e Milano. Dopo gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano ha frequentato il Master in MultiMedia presso l’Accademia belga KASK a Gent. Nel 2013 è stata finalista del “Premio Cairo” e nel 2014 ha vinto il “Premio Terna ‒Pittura” con l’opera intitolata Outer Space. Ha esposto le sue opere in sedi diverse a Mosca, Bruxelles, Milano. Attualmente è in corso la mostra Chôra, a cura di Giuseppe Frangi, presso Boccanera Gallery a Trento. Il dialogo esplora la poetica di Carrara considerando i seguenti temi: la natura morta, il rapporto tra arte e decorazione, le possibilità e i limiti della rappresentazione, l’accidentalità in pittura.

Nella tua pittura la natura morta è un tema ricorrente. Che importanza ha per il tuo lavoro?
Da quando ho iniziato a lavorare sulle nature morte mi sono interrogata sulla necessità di rappresentare gli oggetti e ho cercato di stabilire un legame nella storia dell’arte. Oltre alle numerose necessità degli artisti del passato, questa indagine mi ha permesso di riconoscere anche un profondo legame tra arte e decorazione, imprescindibile perché ci sia arte.

Come consideri quest’ultimo rapporto?
Difficilmente si accetta il legame tra arte e decorazione. Eppure, sono numerosi gli artisti che in passato venivano chiamati per fare delle ‘decorazioni murarie’ o affreschi, in chiese e palazzi. La loro maestria non era tanto nella scelta del soggetto quanto nella capacità di servirsi della pittura. Ecco, questo è il punto: gli artisti possono avere un tema e su questo lavorano grazie alle loro capacità tecniche. Basta pensare a un finto marmo di Beato Angelico e appare evidente cosa intendo per ‘legame tra decorazione e arte’.

Linda Carrara, Betulla, 2019, olio e grafite su lino, cm 160x110

Linda Carrara, Betulla, 2019, olio e grafite su lino, cm 160×110

Questa riflessione rimanda anche al rapporto con l’artificio e l’ornamento. La tua però è una pratica pittorica che procede per sottrazione.
L’ornamento non è una priorità. Spesso questo vuol dire usufruire al meglio di tecniche appartenenti naturalmente all’artigianato che, in un certo modo, mi svincolano e legano le mani, per tornare così a un fare pittorico originario. Credo che procedere per sottrazione, come dici tu, voglia dire riuscire a trovare un modo per rendere la pittura unico soggetto predominante, lasciandola libera di divenire e di essere.

Un obiettivo che cerchi di raggiungere anche attraverso la tua indagine sulla rappresentazione.
Non sono mai completamente nella piena rappresentazione. C’è sempre un ingrediente, che vorrei chiamare ‘alchemico’, che rende possibile il lavoro. Il mio è un fare quasi empirico, nasce da una progressione di tentativi e avvenimenti quasi casuali che determinano le fasi della costruzione pittorica. Quelle fasi permettono di avere una rappresentazione indefinita o indecisa. Ed è proprio a questi tentativi che ritorno per indagarla e riuscire a fare un’opera.

C’è un elemento in particolare che credi abbia ispirato questa impostazione del tuo lavoro?
Gradualmente si è posta una domanda: oggi abbiamo ancora la necessità di rappresentare qualcosa? Ovvero, in altre parole: ha ancora senso la rappresentazione classica, ‘di scena’? E quale può essere un’alternativa a essa?

Che rapporto hai con le immagini?
Complicato e distante. Nonostante la mia sia considerabile come pittura figurativa, l’intenzione non è di creare immagini. Una scelta che alimenta un conflitto che affronto da tempo e che si impone con la necessità di trovare un ordine tra figurazione e astrazione.

In proposito, sembra porsi anche un quesito sulla forma. 
Sì, sulla forma e sulla sostanza. Un’opera non è solo il suo soggetto, né solo il suo materiale. C’è in particolare un elemento che fa parte della pittura, che appartiene a quella sfera indescrivibile che determina lo stato del lavoro. È un elemento imprescindibile.

Una tua opera video, Still Life, rivela anche il tuo interesse per qualcosa di inafferrabile che è proprio dell’arte.
Nonostante non sia un quadro, quel video rivela un intento pittorico: è una pittura in movimento. È un lavoro che nasce da una considerazione: potrei dipingere moltissime nature morte, ma ognuna sarebbe cristallizzata in un solo modo, quello ottenuto mediante la pittura. Con il video sono riuscita invece a rigenerare un continuo cambiamento, ad avvicinarmi alle cose e a quella inafferrabilità che caratterizza l’arte. Le molteplici composizioni possibili e ugualmente belle perdono quel fascino dell’esser rappresentato, dando invece forza all’azione, all’indecisione pre-pittorica.

L’accidentalità in pittura sembra poter essere ammessa, in particolare se gli artifici che la rendono possibile vengono resi inefficaci.
Assolutamente, anzi possiamo dire che l’incidente è spesso fondamentale. Credo che la possibilità di rendere inefficaci gli artifici sia nata proprio da una causa accidentale. Nel 2014 ho osservato per alcuni mesi dei pezzi di legno sparsi casualmente sulla terrazza della casa in cui abitavo: è da questi “oggetti insignificanti” che quell’anno ho iniziato a lavorare alla serie ecolalia. Quando ho deciso di raffigurarli ho scelto di farlo in modo intuitivo, cercando di avvicinarmi allo sforzo rappresentativo prospettico del Trecento. Uno sforzo con il quale ho tentato di dimenticarmi delle regole prospettiche. Volevo ottenere la rappresentazione dell’idea di un oggetto, delle forme che stanno in qualche modo in uno spazio. Delle forme che facevano risaltare il gioco pittorico di luci e ombre e da questo ne prendevano la propria dimensione; ognuna con il proprio punto di vista e la propria prospettiva, non coerente l’una con l’altra ma che nel loro insieme ingannasse sulla veridicità della scena. Proprio come nel Medioevo cercavano di rappresentare case e palazzi, senza utilizzare la logica prospettica secondo un punto di fuga centrale.

Quanto può essere influente l’accidentalità ai fini della realizzazione di un’opera?
Spesso dipingere significa anche contemplare proprio le possibilità offerte dall’errore. Un’opera in particolare lo mostra: Lo stagno. Ci sono dei segni accidentali, parte del frottage, emersi probabilmente sfregando un pennello o uno straccio che ha abraso il colore sulla tela. Esattamente quei tratti “sbagliati” sono quelli che mi hanno suggerito che si trattasse di uno stagno. Non c’era niente sulla tela mentre la lavoravo, solo il colore-frottage di fondo. Eppure, quei segni erano evidentemente simili a foglie tipiche delle rive di uno stagno o di un fiume. Segni apparsi, lontani dalle mie scelte, che mi hanno reso evidente l’opera, suggerendomela senza che io la pensassi a priori.

Davide Dal Sasso

www.lindacarrara.com

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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