Dialoghi di Estetica. La sound art di Michele Spanghero

Esplora il rapporto tra suono e spazio la pratica artistica di Spanghero, però con un peculiare approccio scultoreo, influenzato anche dal teatro. Ne abbiamo parlato con lui

Dopo la formazione universitaria, Michele Spanghero (Gorizia, 1979) ha rifinito i suoi studi frequentando alcuni seminari di musica. Nel corso degli anni ha sviluppato una ricerca artistica che trova nella sound art una sintesi riuscita tra arte acustica e arte visiva. Ha esposto in diverse istituzioni internazionali quali School of the Art Institute (Chicago), Cinémathèque québécoise (Montreal), Hyundai Motorstudio (Pechino), Museum of Modern Art (Istanbul), Darb 1718 Centre (Cairo), Giardino delle Tuileries (Parigi), Le Centquatre (Parigi), Ars Electronica festival (Linz), Technisches Sammlungen (Dresda). La sua attività in Italia include mostre collettive e personali in diverse istituzioni, come la 16° Quadriennale d’Arte (Roma), Mart (Rovereto), Galleria Nazionale dell’Umbria (Perugia), Fondazione Bevilacqua La Masa (Venezia), Palazzo Te (Mantova), Tempio di Adriano (Roma), OGR (Torino), Museo d’Arte Contemporanea (Lissone) e il Castello di Miramare (Trieste).
Questo dialogo considera alcuni dei principali soggetti della poetica di Spanghero: il rapporto tra suono e spazio, il suo interesse per il tempo e il teatro, l’approccio scultoreo, il lavoro sulla sottrazione, il ruolo del senso e dell’astrazione nelle opere.

Michele Spanghero
Michele Spanghero

Intervista a Michele Spanghero

Nonostante la tua sia una indagine sul suono, e in quanto tale per il suo svolgimento il tempo sia un riferimento imprescindibile, essa rivela anche il tuo costante interesse per lo spazio.
Il tempo è un riferimento certamente presente poiché da una parte è legato alla natura del suono e dall’altra alle trasformazioni della mia pratica artistica. Agli inizi mi sono molto interrogato su questo tema, anzitutto attraverso la musica e poi anche mediante la fotografia. Ma più mi accorgevo che l’elemento sonoro sarebbe diventato centrale per la mia pratica artistica, più mi muovevo verso la sound art prendendo così le distanze dalla musica. Parallelamente, piuttosto che renderlo esplicito, il lavoro sul tempo è stato decisivo per aprirmi la strada proprio per quello sullo spazio.

In che modo?
Il suono consente la dilatazione nello spazio. Ma, diversamente da quanto accade nella sound art e nella video arte più ortodosse, ho coltivato la possibilità di creare opere che non richiedano delle fruizioni estremamente lunghe. Quasi tutti i miei lavori hanno una temporalità statica, non prevedono una vera e propria variazione nel tempo: questo perché mi interessa avere un approccio il più possibile scultoreo. Ecco come si è compiuto quel passaggio. Sono infatti d’accordo con te: sicuramente il tema dello spazio è quello che sento più mio. Con esso ho sempre avuto un rapporto istintivo, che ho sviluppato esplorando essenzialmente le possibilità del suono. C’è un rapporto viscerale tra il mio lavoro, il suono e lo spazio.

Lo si riconosce già nelle tue prime opere.
Sì, lo spazio è sempre stato presente. Il mio interesse per gli scorci delle prospettive urbane, gli elementi architettonici e industriali, è mosso dalla possibilità di vedere la realtà attraverso una prospettiva straniante che permetta di poterne cogliere altri significati oltre a quelli che la caratterizzano.

Straniamento e teatralità dell’opera secondo Spanghero

Vorrei soffermarmi un momento su questa tua esigenza poetica. Considerando la tua produzione nel corso degli anni, penso che questo carattere dello straniamento sia anche all’origine della tua inclinazione a lavorare su qualcosa come una ‘teatralità dell’opera’. L’impressione che danno i tuoi oggetti sonori è infatti di essere elaborati anche per non rimanere inosservati.
Per me fare sound art vuol dire anche rifinire i materiali che uso, marcare gli elementi visivi delle mie opere. In questo modo di lavorare vi è la mia necessità di compiere una sintesi tra l’ambito sonoro e quello visivo. Non ho mai pensato alle mie opere come composizioni musicali presentate con una veste diversa. Lavorare con il suono per me significa coinvolgere anche il piano della visione. Anche se non sono comunque convinto che questa scelta debba essere una imposizione: non credo che l’elemento visivo abbia qualcosa in più di quello sonoro. Ma quella teatralità di cui parli ha origini lontane, nelle mie esperienze da studioso e da fruitore del teatro. Credo infatti che entrambe mi abbiano molto influenzato. Sicuramente per fare le mie opere, entro in relazione con lo spazio immaginandomi come potranno presentarsi in esso e anche come saranno potenzialmente viste dal pubblico.

Quali sono gli aspetti che ti hanno influenzato di più?
Penso al teatro come a una sintesi riuscita tra più espressioni artistiche. Ho sempre pensato alle arti distinguendole e il teatro mi ha messo di fronte all’evidenza di poter ottenere una convergenza di più linguaggi in un’unica opera. Insieme a questo aspetto vi è quello che credo sia il più importante per me: la rottura dello spazio del palcoscenico, ossia la possibilità di ripensarlo servendosi anche di artifici elementari – come insegna il teatro d’avanguardia.

Michele Spanghero, Audible Forms (2013), installazione sonora, installation view at Mart, Rovereto, 2013
Michele Spanghero, Audible Forms (2013), installazione sonora, installation view at Mart, Rovereto, 2013

Il tuo non è mai un lavoro solo sul suono o solo sullo spazio, poiché ha una sua sintesi anche in quello che provo a chiamare ‘campo’: un insieme di elementi attivi che possono incontrarsi, dato che il campo è fuori ma anche dentro alle tue opere.
Trovo interessante il termine che hai utilizzato, ‘campo’, perché l’ho esplicitamente usato (in riferimento al ‘campo acustico’) nel titolo di due grandi installazioni sonore realizzate negli ultimi mesi. Accolgo dunque positivamente questa tua riflessione. Soprattutto perché la collego tanto alle possibilità di estensione dell’opera quanto al potenziale che essa può avere sul piano riflessivo. L’opera è un punto di avvio, pone una questione che può essere più o meno importante per chi la potrà sperimentare.

Nella tua pratica artistica si riconosce anche la centralità di qualcosa che propongo di chiamare l’‘in-udibile’, ossia tutto quel lavorio che svolgi tanto sull’ascoltare quanto sul sentire.
L’in-udibile lo concepisco nei termini ancora più netti della percezione. Penso a qualcosa che sta al confine tra sentire e ascoltare. Il mio obiettivo è che, attraverso il suo movimento, il fruitore possa avere una percezione dello spazio anzitutto attraverso il proprio corpo, così da potersi soffermare in particolare sul ruolo del suono nella percezione dello spazio. Vorrei che lo spettatore facesse tesoro della sua esperienza concreta. L’opera emette costantemente un suono pensato appositamente per agire con lo spazio che la ospita, allo spettatore spetta poi di completare quel primo innesco.

Michele Spanghero, 1:10.000 (2010), scultura sonora. Courtesy Galleria Mazzoli, Modena e Berlino
Michele Spanghero, 1:10.000 (2010), scultura sonora. Courtesy Galleria Mazzoli, Modena e Berlino

Il silenzio come assenza di suono

Torniamo un momento sul tuo approccio scultoreo. Mi sembra che anch’esso sia influenzato dalla prossimità al teatro che ricordavi, soprattutto perché lavori molto attraverso la sottrazione.
Sì, è un altro riferimento molto presente: quando lavoro alle mie opere tolgo, tolgo e tolgo ancora prima di arrivare a un risultato. Solitamente, tendo a scartare tutti gli elementi che ritengo non indispensabili al fine di ottenere quella che mi pare essere una buona via da percorrere. La mia inclinazione verso la scultura, ben consapevole del fatto di non praticarla completamente, ha origine in un momento preciso, quello in cui sono riuscito a dare forma a una idea che avevo da anni: fare un oggetto che potesse contenere il silenzio. Ci sono riuscito in qualche modo con la mia opera 1:10.000, una piccola tanica di metallo nella quale viene riprodotto il suono di una cisterna petrolifera di dimensioni ben più grandi. Anche in questo caso c’era di mezzo la possibilità di ottenere una sintesi.

Che cosa è emerso in quel momento?
A distanza di anni mi sono reso conto che utilizzando il suono in modo antiacustico, sono riuscito a mostrare un punto di vista diverso sulla scultura. Solitamente ci concentriamo sulle sue fattezze esteriori, ma c’è anche un interno. Quello che chiamiamo ‘scultura’ sarebbe allora più probabilmente qualcosa che sta nel mezzo. Così ho dato forma a un’idea di scultura come membrana. Una idea che è stata decisiva per la mia scelta di innestare l’elemento sonoro in qualcosa di materiale.

Il tuo lavoro sulle possibilità del suono all’interno dei materiali è anche considerabile come espressione del tuo interesse per il silenzio e, soprattutto, per il vuoto. Pare scontato, ma non lo è affatto.
Il mio sogno sarebbe di riuscire a fare il calco di una nuvola… No, non è per niente scontato. Certo, mi interessa il vuoto. Ma la vera questione è lavorare sul confine stesso della forma. Mi interrogo molto su quello che faccio, sul perché lo faccio in un modo piuttosto che in un altro. Il mio obiettivo è che quello che faccio abbia un senso. Questo vale anche per il suono: se c’è, deve avere un senso altrimenti potrei anche farne a meno, lasciando posto al silenzio nelle sue diverse modalità di presenza (come è successo, per esempio, con l’opera Nothing to Say attualmente esposta alla mostra Listening Post alla Fondazione Bevilacqua La Masa

Sembra che per te il senso sia essenzialmente coerenza.
È così. Quando dico che l’opera ha un senso intendo che dovrebbe essere coerente con quel che vorrei dire attraverso di essa o che potrà essere colto dal pubblico. L’opera deve in qualche modo portare con sé delle informazioni che siano un elemento che concorre a costruire il suo significato. Penso anche a qualcosa come un tassello che possa renderla stabile, che determina la futura memoria che avremo di essa. Tendenzialmente, tutto ciò che alla fine c’è in un’opera ha una sua giustificazione, deve avere senso e portare senso. L’opera deve in qualche modo rientrare in uno schema che possa essere giustificabile. Insomma, per me un’opera è un dispositivo di senso.

Naturalmente, però, può sempre sfuggire qualcosa. Non tutto è calcolabile e comprensibile. Penso a questa possibile irrisolutezza alla luce di un certo tono astratto che accompagna comunque le tue opere.
Assolutamente! C’è anche qualcosa di misterioso nelle mie opere. Spesso lo penso come qualcosa che avvicina l’arte al sacro, per me quest’ultimo è l’incomprensibile per antonomasia. Il fatto stesso di porre delle domande con le opere, di mettere l’accento su talune questioni che nonostante possano apparire eteree sono invece pungenti poiché ci invitano a continuare a cercare un modo per rispondere. Lì, in quello spazio che si delinea, penso che oltre a quel che può rimanere irrisolto si configuri anche il tono astratto dei miei lavori.

Davide Dal Sasso

https://www.michelespanghero.com

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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