Dialoghi di Estetica. Parola a Teho Teardo
Musicista, compositore e sound designer, Teho Teardo è autore a tutto tondo. Tra le sue opere vi sono le colonne sonore di numerosi film tra i quali: Denti, L’amico di famiglia, La ragazza del lago, Il Divo, Diaz. Condotta all’insegna della sperimentazione, la sua ricerca spazia tra musica, avanguardia, cinema e teatro mirando a far dialogare le diverse forme di espressione artistica. A confermarlo sono anche i suoi ultimi progetti, Le retour à la raison. Musique pour trois film de Man Ray e Into the Black. Music for Joan Miró, nei quali la musica incontra nuovamente le arti visive. In questo dialogo abbiamo parlato direttamente con Teardo di questi e altri aspetti che contraddistinguono la sua poetica.
La tua ricerca prende avvio durante gli Anni Ottanta e Novanta nella scena noise e industrial. Quali sono gli aspetti principali della sperimentazione di quel periodo?
È stato un inizio, in completa incoscienza e con la necessaria dose di follia che dovrebbe caratterizzare quell’età. Mi affascinava particolarmente un tipo di musica che riuscisse a raccontare le zone industriali ai margini delle città, definendo una nuova poetica per luoghi che la musica non aveva mai attraversato in quel modo.
Com’è cambiata la tua ricerca nel corso degli anni?
Quando ho iniziato a suonare e a registrare dei dischi non sapevo assolutamente suonare nulla, non avrei mai potuto suonare la musica degli altri, sono stato costretto a inventarmi della musica, sono diventato così un compositore, non certo andando al conservatorio per ricoprirmi di muffa. Eliminando in modo radicale alcuni tragitti canonici alla musica mi sono anche salvato da quelle situazioni banali con chitarra da campeggio davanti al fuoco in spiaggia fino alle macabre derive dei talent. Ho incontrato dei freak che avevano altri universi. La mia ricerca cambia costantemente, ho bisogno di spostarmi perché per me la musica è anche una questione di spostamento.
Tra le colonne sonore che hai realizzato vi sono quelle dei film Denti, Lavorare con lentezza, La ragazza del lago, Il Divo e Diaz – solo per citarne alcuni. Come procedi al fine di conciliare i suoni alle immagini, data la struttura narrativa di un film?
I suoni non si devono conciliare con le immagini, non si tratta di sedare una lite, ma di un dialogo da innescare. Associando elementi disparati trovo pretesti per un contatto, un avvicinamento. Spesso lascio incompleta la scrittura, è un espediente per fare in modo che la musica continui a vivere. Sono forme aperte.
In diverse occasioni, hai precisato che con il tuo lavoro mira a portare la musica al cinema e non a fare musica per il cinema. Un chiarimento che sembra rivelare una priorità che avrebbe il suono rispetto all’immagine…
Non ho mai detto che il suono debba prevaricare l’immagine. Si tratta sempre di un dialogo, spesso molto intimo, a volte basato sulla contraddizione e il contrasto e il suono che certe dicotomie possono produrre. Voglio che la musica stabilisca un legame con le immagini piuttosto che essere mero accompagnamento. Lavoro solitamente ad un cinema d’autore che non necessita di essere accompagnato ma che chiede alla musica un legame che sia più profondo. Veniamo da decenni di nobilissima ed efficace tradizione di commento musicale. Ma quella era un’altra epoca, per raccontare il nostro tempo non possiamo ancora utilizzare metodi del passato, non funzionerebbe. Mi piace sorprendermi cercando nuove metodologie per ogni nuovo progetto.
Still smiling, il disco che hai realizzato nel 2013 insieme a Blixa Bargeld degli Einstürzende Neubauten, può essere pensato come una sintesi della tua ricerca musicale che, parallelamente, apre anche all’orizzonte della sperimentazione multilinguistica. Come avete sviluppato il progetto di questa intrigante opera?
Volevamo un album di canzoni, in più lingue e, dal punto di vista strumentale, cercavamo una dimensione cameristica e così è stato. Siamo partiti dalla musica, ho proposto a Blixa delle idee su cui stavo lavorando e le abbiamo sviluppate assieme fino a quando erano pronte per esser cantate. Un processo piuttosto lungo, abbiamo lavorato circa un paio d’anni a questo disco.
Tra le forme d’arte con cui la tua musica entra in dialogo vi è anche il teatro. In che modo hai accostato la tua opera sonora alla lettura di Viaggio al termine della notte di Céline, lavorando insieme all’attore Elio Germano?
Ho cominciato dal suono della voce, registrando quella di Elio. Sovrapponendo le varie registrazioni fino a trovare il suono ideale della voce per quel racconto. Un lessico della bocca, se vuoi. In quel suono ho trovato la musica che si sente nello spettacolo. Una conseguenza.
Retour à la raison (1923), Emak-bakia (1926) e L’étoile de mer (1928) sono i tre film di Man Ray al centro di uno dei tuoi ultimi progetti che hai presentato in diversi musei italiani. Qual è stata la scintilla iniziale per quest’opera?
Piero Colussi, il sovrintendente di Villa Manin, in occasione della retrospettiva su Man Ray pensò di commissionarmi le musiche per tre corti dell’artista. A me non parve vero, ho sempre avuto una passione speciale per Man Ray e per Dada. Quando ero molto giovane ebbi anche una band che si chiamava Rayogramma, in omaggio ad alcuni lavori dell’uomo raggio. Registrammo un solo brano di cui avevo perso ogni traccia fino a quando, qualche mese fa, qualcuno mi ha inviato un cd con quel brano e così mi sono ricordato di Rayogramma e di quell’esperienza.
E per quanto riguarda invece il lavoro sul cinema muto?
Pensare della musica per il cinema muto è piuttosto complesso. Quando ci si confronta con quel mondo, comincia immediatamente a circolare, non per colpa mia, il termine “sonorizzazione”. Ogni volta che lo sento, mi compaiono di fronte gli occhi due tecnici con il camice bianco da lavoro che spostano pannelli fonoassorbenti. Si usa anche per un complemento musicale ad un film. Ma rimane un termine insoddisfacente, detto così sembra solo una questione tecnica e non mi piace perché pare una riduzione che non gode nemmeno della dignità dell’art and crafts. Anche se va piuttosto di moda, ormai cani e porci si cimentano con il cinema muto, forse perché a nessun regista vivente verrebbe in mente di chiamarli. Ho sentito dire più volte “ho suonato su un film muto”, parole che fanno pensare solo a linguaggi buttati uno contro l’altro fino a depotenziarli completamente.
Alcuni ambiti musicali dove la musica strumentale non è un’eccezione, penso al jazz o a certo indie rock indolente, paiono forme musicali adatte a creare un rapporto con il cinema muto solamente perché sono strumentali. Invece lavorare alla musica per un film muto dovrebbe comportare la conoscenza di un linguaggio musicale che con le immagini deve stabilire un rapporto, non basta suonare due accordi in minore per entrare in contatto. A me non interessa appiccicare della musica a un film, soprattutto a capolavori come quelli di Man Ray che non hanno certo bisogno che qualcuno, come un vetrinista, li decori. Per me la musica è altro, in questo caso era inventare un appuntamento immaginario con Man Ray. La speranza di trovarlo nel luogo stabilito era alta e comportava anche una notevole dose di rischio. Qualcuno, tra gli spettatori, pare l’abbia visto. E a me va bene così.
Che genere dialogo si è innescato tra la tua musica e i film di Man Ray?
Quando si lavora a un film muto solitamente i registi sono morti. Anche Man Ray non è più tra noi, quindi sei da solo e decidi di iniziare un contatto immaginario con qualcuno che non esiste più inventando metodi per costruire un dialogo con l’uomo raggio. Quel che abbiamo a disposizione è la loro opera e un apparato critico. Si parte da lì, dai lavori che ci hanno lasciato e si comincia a sognare. C’è anche una sensualità marcata nei suoi film, intensa e liberatoria, come se colasse umori.
Spero ciò abbia scombussolato anche la musica, perché non si riesce a rimanere indenni davanti a tanta esuberanza dopo alcuni mesi di costante frequentazione con quelle immagini. L’eccitazione è una delle chiavi di lettura di questo progetto, si manifesta con il senso di libertà che ho sentito nella musica che ho scritto per i tre film.
Un nuovo incontro, in questo caso con la pittura, caratterizza il tuo Into the Black. Music for Joan Miró. Com’è nata quest’opera?
Con la commissione, da parte dei curatori della mostra di pensare a della musica che potesse stabilire un rapporto con il luogo in cui Miró lavorava, il suo studio. Così son partito per Palma de Mallorca e ho registrato in quello spazio ancora così carico della presenza dell’artista spagnolo. Inizialmente mi sentivo come un intruso che temeva per il rientro di Miró, poi mi sono abituato a quella luce costante, ho cominciato a sentirmi a mio agio fino al punto di mettermi a cantare.
Avendo in mente la pittura di Miró, verrebbe da chiedere se questa tua nuova opera non possa essere pensata anche nei termini di un incontro tra diversi modelli di astrazione.
Nello studio c’erano diverse opere di Miró, alcune incompiute ma in cui era ben delineato l’universo dell’artista. Una sorta di cartografia delle sue intenzioni che spesso miravano a un microcosmo abitabile, vivibile. Dopo un po’ che mi trovavo nello studio ho avuto la sensazione di poter accedere a quel mondo suggerito da quei segni neri. La possibilità di entrare. E sono entrato.
Davide Dal Sasso
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