Dialoghi di Estetica. Parola a Carlos Basualdo

Carlos Basualdo è curatore presso il Philadelphia Museum of Art, è stato curatore al Maxxi di Roma e ha insegnato allo Iuav di Venezia. Nel 2012 ha curato la mostra “Dancing around the Bride: Cage, Cunningham, Johns, Rauschenberg and Duchamp”, presentata al Philadelphia Museum of Art e alla Barbican Gallery di Londra. È stato il principale organizzatore di “Bruce Naumann: Topological gardens”, partecipazione nazionale degli Usa alla Biennale di Venezia del 2009, premiata con il Leone d’oro. In questo dialogo parla del suo rapporto con l’opera di Duchamp, divenuta centrale nelle sue riflessioni sull’arte ma soprattutto sulla nozione di “mostra”.

Comincerei con una domanda sulla mostra Dancing around the Bride: Cage, Cunningham, Johns, Rauschenberg and Duchamp, che ruota attorno all’enigmatico capolavoro La Mariée mise à Nu par ses Célibataires, même. La mostra permette di comprendere l’importanza dell’opera di Duchamp per questi artisti contemporanei, ricostruendo quell’occasione di scambio e collaborazione unica per il divenire dell’arte. Potresti spiegare lo spirito che ha animato l’iniziativa e l’idea che la sostiene?
La ragione di questa mostra non è troppo diversa da quella di Tropicalia: A Revolution in Brazilian Culture, la mostra sulle avanguardie brasiliane della fine degli Anni Sessanta che avevo curato nel 2004. Mi sembra che il periodo tra il 1950 e il 1960, quando Jasper Johns, Robert Rauschenberg, John Cage e Merce Cunningham lavoravano in sinergia, sia stato uno dei momenti più importanti nella cultura americana: la cooperazione ha comportato non soltanto una ridefinizione delle loro rispettive pratiche, ma soprattutto di cosa significa “stare insieme”. Le loro opere sono come una promessa (estetica e politica) non ancora completamente realizzata il cui potenziale è ciò che la mostra voleva rendere sensibile.
Già all’inizio della ricerca era evidente che ci si stava imbattendo in un’impresa titanica. Era mia intenzione, infatti, mappare i molteplici livelli d’intersezione tra questi artisti incredibili, che hanno vissuto a lungo in maniera produttiva (Johns crea ancora oggi opere straordinarie). Mi sentivo come se stessi cercando di stabilire delle demarcazioni su un materiale effettivamente magmatico, dal momento che quello che sappiamo sulle loro vite e sulle loro opere è in continua evoluzione. La rivelazione avvenne nel momento in cui decisi di centrare l’esposizione attorno al loro rapporto con Marcel Duchamp.

Come e perché ha deciso di far dialogare lopera di questi artisti con la figura di Duchamp?
Si dà il caso che sia stata una decisione piuttosto ovvia, dato il contesto di un’istituzione come il Philadelphia Museum of Art, che ospita la più importante collezione di questo artista. Tuttavia non siamo partiti da questa constatazione, ma siamo giunti alla scelta mentre cercavamo di trovare un modo di affrontare la difficile impresa. È solo in maniera retrospettiva che l’ovvietà si manifesta: è stato attraverso il lavoro di questi quattro artisti che l’eredità duchampiana è stata accolta e messa a frutto nel dopoguerra.
Una volta stabilito che la mostra sarebbe stata incentrata sul rapporto tra i quattro artisti americani e Duchamp, la selezione delle opere è derivata naturalmente e, a questo punto, si trattava di capire come organizzare in una mostra l’eterogeneità dei materiali: opere “tradizionali” (che almeno assomigliano a pittura e scultura), performance di danza e musica, scenografie, scenografie che in seguito sono state considerate opere, partiture musicali che sembrano disegni, disegni veri e propri ecc. Era chiaro: ciò che la mostra stava mettendo in gioco era niente meno che la definizione di opera d’arte.

Dancing around the bride – veduta della mostra presso il Philadelphia Muséum of Art, 2012-2013

Dancing around the bride – veduta della mostra presso il Philadelphia Muséum of Art, 2012-2013

Quindi quello che la mostra intendeva mettere in luce non è semplicemente il dialogo tra questi artisti
Non credo che si possa parlare della relazione tra questi quattro artisti e tra loro e Duchamp in termini di linguaggio, vale a dire servendosi della metafora del “dialogo”. Non credo nemmeno che sia il caso di parlare di “influenze”, che implicano una gerarchia e una temporalità lineare. Mi sono rifatto, invece, alla nozione di “danza”, che sottintende una costellazione di movimenti nello spazio e nel tempo – una concezione più complessa, sperimentale, di temporalità. Questa implica corpi reali e tutto quanto vi è associato: ansietà, desiderio, e fondamentalmente la gioia di stare insieme. La sposa è una figura misteriosa; nell’ambito della mostra funziona come un codice, forse del Grande Vetro. Mi pare che Duchamp stesso, almeno per la maggior parte della sua vita, abbia danzato attorno alla Sposa.

La mostra è stata realizzata in una forma di speciale collaborazione con un artista, Philippe Parreno. Come è nata questidea e qual è stato il suo contributo?
Una volta definito il senso della mostra, si trattava di organizzare i diversi materiali in modo da evocare, in una qualche maniera, la complessa e feconda relazione tra i cinque artisti. Sapevo che avrei avuto bisogno di creare un modello espositivo speciale ed è stata proprio una mostra di Philippe Parreno, che avevo visto alla Serpentine Gallery di Londra, a suggerirmelo. Quello che mi interessava rispetto alla mostra di Parreno era il suo svolgersi nel tempo in una sequenza programmata dall’artista, di modo che lo stesso spazio poteva essere impiegato alternativamente come contenitore di oggetti o come sala da proiezione.
Parreno si è occupato per molti anni della mostra come medium e l’esposizione alla Serpentine era una sorta di distillato delle varie strategie che aveva sperimentato nel tempo. All’epoca non lo conoscevo ancora personalmente, così gli scrissi del mio progetto e quando ci incontrammo a New York gli chiesi l’autorizzazione a utilizzare alcune delle strategie espositive che aveva impiegato a Londra. Parreno acconsentì e mi disse che gli sarebbe piaciuto essere coinvolto in maniera più sostanziale. Ci accordammo, allora, perché assumesse il ruolo di metteur-en-scène della mostra.

In che senso?
Parreno, di fatto, si è occupato di animare i materiali attraverso una serie di interventi che contribuivano a mettere in questione la definizione di opera d’arte. Direi che il suo coinvolgimento ha trasformato la mostra in un insieme organico.

Dancing around the bride – veduta della mostra presso il Philadelphia Muséum of Art, 2012-2013

Dancing around the bride – veduta della mostra presso il Philadelphia Muséum of Art, 2012-2013

Marcel Duchamp è un artista molto importante per te. Come se cercassi in lui una chiave per capire cos’è l’arte senza accontentarti delle risposte tradizionali. Duchamp è l’enigma. Ma è l’enigma dell’arte o l’arte come enigma? L’arte serve per svelare i segreti della struttura o il segreto dell’arte è di emergere come effetto di superficie non riducibile alle strutture?
Non so quanto Duchamp sia stato importante per me prima del mio arrivo a Philadelphia. Il suo lavoro è divenuto certamente molto presente da quando ho iniziato a lavorare al museo, è per via della collezione che mi è stato impossibile non pensare a Duchamp in questo contesto. Credo che precedentemente la mia idea di questo artista fosse abbastanza astratta. Come molti altri pensavo che fosse un precursore dell’arte concettuale e consideravo il suo lavoro piuttosto immateriale, cosa che non è assolutamente vera.
Quando entrai in contatto con le singole opere della collezione del museo rimasi scioccato nello scoprire l’attenzione che portava ai materiali. Perfino quando si occupava di linguaggio, come nelle note per il Grande Vetro, ad esempio, ha scelto di presentarle ponendo un’estrema attenzione alla loro materialità. Varie volte si è meritato l’appellativo di bricoleur ed era sicuramente uno a cui piaceva lavorare con le mani e a cui questo tipo di attività riusciva bene. Era bravo a fare le cose e non importa la forma che queste cose avrebbero preso. Così, per prima venne la scoperta della dimensione materiale del lavoro di Duchamp e in seguito, un po’ alla volta, la consapevolezza che il suo carattere dovesse essere preso in considerazione se si voleva davvero comprendere la sua opera.

Cosa intendi per carattere?
Per carattere intendo un certo modo di stare al mondo – una volta si è servito dell’espressione modus vivendi – che nel caso specifico di Duchamp ha che fare con la discrezione, con quella sorta di aggraziata eleganza che contraddistingue il suo rapporto con gli amici e la famiglia. Iniziai allora a pensare che per comprendere il suo lavoro bisognava assumere la prospettiva offerta dal carattere di Duchamp. Naturalmente questo è molto più facile a dirsi che a farsi, e non soltanto perché Duchamp non è più tra noi da almeno mezzo secolo.
È possibile conoscere il carattere di una persona, di una qualsiasi persona? La domanda va formulata in un altro modo, ovvero nei termini del rapporto arte-vita. Nel caso di Duchamp, infatti, la domanda risulta della massima importanza in quanto egli stesso ha sottolineato l’identità della sua vita e della sua opera pochi anni prima di morire. Pertanto mi sembra che per accedere alla logica profonda del lavoro di Duchamp e per dar ragione dei suoi effetti sull’arte contemporanea sia necessario esaminare il nesso tra la sua vita e la sua opera, vale a dire la sua vita come opera. Non credo che questo si possa fare attraverso i mezzi messi a disposizione dalla storia dell’arte, ovvero non credo che si possano usare i criteri delle belle arti.
Ho l’impressione che non ci sia nella storia dell’arte un linguaggio adatto a descrivere una pratica che include la produzione di oggetti, ma anche di testi e azioni, ciascuno dei quali influenza la comprensione degli altri in modo tale che la loro interdipendenza sia relativa all’interpretazione dello spettatore. Se questo è il caso, considerare il lavoro di Duchamp come vita ci porta al di fuori dei limiti della tradizionale definizione di arte. La sua vita come opera non è la chiave per comprendere l’arte ma per accedere a uno spazio di senso che si trova al di là della definizione dell’arte. Mi sembra che la dichiarazione di Duchamp secondo la quale la sua vita è un’opera d’arte deve essere considerata in rapporto a uno delle sue prime note, dove trattava della possibilità di fare un’opera che non fosse, o non fosse più, un’opera d’arte.

Carlos Basualdo

Carlos Basualdo

Puoi fare un esempio di come tutti questi piani si intersecano in una delle opere più controverse di Duchamp, il Grande Vetro, che fa parte della collezione del Museo darte di Philadelphia?
In questa prospettiva è chiaro che il Grande Vetro non può essere considerato in maniera isolata, come un’opera in quanto tale. Esiste sicuramente in sé– rotto, chiaramente, e completato dal caso, lo stesso caso da cui emerge l’architettura interna. In questo senso il Grande Vetro deve essere visto come parte di una costellazione che include le note sul caso contenute nella Boîte del 1924, i Trois stoppages étalons e i ready made, oltre alle note raccolte nelle Boîte verte e blanche, che includono le note sul continuo. Un continuo che lega il Grande Vetro con Étant Donné, considerato il lavoro più importante di Duchamp, benché il suo titolo corrisponda a quello di una delle prime note del Vetro.
Per riassumere, il Vetro è allo stesso tempo un lavoro individuale e parte di una rete più vasta che comprende oggetti e testi e che può essere esteso alle interpretazioni di quegli oggetti e testi. Non si tratta di una rete che esiste una volta per tutte, ma che evolve costantemente a mano a mano che emergono nuove informazioni sulle parti che la compongono. La rete è quindi in costante divenire, attivamente e retroattivamente, in rapporto alle trasformazioni della nostra comprensione della vita di Duchamp come opera.

Anna Longo

 

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Anna Longo

Anna Longo

Anna Longo è dottore di ricerca in Filosofia Estetica all'Université Paris 1 - Panthéon Sorbonne e SUM. Si occupa del rapporto tra conoscenza estetica e conoscenza scientifica.

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