Dialoghi di Estetica. Parola a Gianmaria Ajani
Giurista, studioso dei rapporti fra diritto e arte contemporanea, Gianmaria Ajani è dal 2013 Rettore dell’Università degli Studi di Torino. Con Alessandra Donati ha curato il volume “I diritti dell’arte contemporanea” pubblicato da Umberto Allemandi.
Nel 2010, insieme a Gianni Bolongaro, Anna Detheridge, Alessandra Donati e un gruppo di artisti milanesi, avete redatto il Manifesto per i diritti dell’arte contemporanea. Da allora sono passati sei anni. Proviamo a fare un bilancio, come si è trasformata la ricerca giuridica sull’arte contemporanea nel frattempo?
Rispetto al contesto italiano, nel 2010 eravamo veramente agli inizi. Fino a quel momento, ragionare sul rapporto tra diritto e arte voleva dire pensare immediatamente ai problemi del copyright e della tutela dell’autore, secondo i contenuti della Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche adottata nel 1886. Gli aspetti che abbiamo messo a fuoco nel manifesto erano invece altri rispetto a questo orizzonte. Ci siamo chiesti in che modo, esaminando la casistica offerta dall’arte contemporanea, avremmo potuto favorire un arricchimento sul piano della ricerca in ambito giuridico. Con il manifesto abbiamo mostrato che l’assetto delle categorie giuridiche sull’arte, un assetto che abbiamo chiamato “classico”, entra in crisi proprio con la produzione contemporanea. Un aspetto che abbiamo considerato con particolare attenzione è il rapporto tra la dematerializzazione e l’esigenza degli artisti di documentare i propri lavori. Un nesso che rivela il problema dello statuto giuridico dell’assetto documentale. Negli ultimi anni c’è stato invece un approfondimento in direzione del tema degli archivi. Facendo un bilancio, direi che sul piano della elaborazione teorica si è andati molto avanti: oggi quando si parla di diritto e arte contemporanea non si pensa più solo alla tutela del copyright. Sul piano delle politiche, che costituiscono l’ossatura del manifesto, c’è invece ancora molto lavoro da fare.
L’avvio dei lavori con il Manifesto e le ricerche svolte in seguito hanno contribuito anche a mettere in evidenza le diversità tra i modelli normativi europei e quello statunitense.
È così. Abbiamo cercato di mettere in luce una forte divaricazione tra il sistema normativo nordamericano che, in sintesi, tutela molto l’opera a scapito dell’artista, e un sistema europeo continentale che, in Francia, Italia e numerosi altri paesi, mette al centro dell’assetto normativo l’artista. In questo secondo sistema la tutela dell’opera avviene in modo indiretto, ossia attraverso la tutela del nome e della dignità dell’artista. Le conseguenze di questa divaricazione non sono per niente irrilevanti, specie se consideriamo l’assetto globalizzato dell’attuale mercato dell’arte.
Oltre all’immaterialità vi sono altri fattori che sono diventati cruciali per l’aggiornamento della disciplina giuridica in materia di arte?
Un fattore importante da considerare è sicuramente la contaminazione tra i diversi settori di produzione artistica. Le ibridazioni si verificano ormai con frequenza regolare nell’arte contemporanea, pensiamo per esempio alla video-arte o alle opere di danza ibridate con la scultura e la pittura. In rapporto a questi cambiamenti il diritto deve rivedere alcuni dei suoi parametri. L’assetto normativo tradizionale che si basa su singole categorie da tutelare deve essere aggiornato tenendo conto proprio delle ibridazioni che sono ormai la regola nell’arte contemporanea.
Considerando lo stato attuale dell’arte, quali sono i segnali di un potenziale rinnovamento del diritto?
I principali segnali li possiamo riconoscere soprattutto nella giurisprudenza. Ci sono dei casi in cui l’inadeguatezza della norma risulta evidente e il giudice riesce a colmare il suo percorso. A livello legislativo, invece, si usano ancora i vecchi strumenti per cercare di affrontare i nuovi casi.
Il confronto tra giuristi e operatori del mondo dell’arte negli ultimi anni si è trasformato in un dialogo tra discipline quali il diritto, la storia dell’arte, le teorie critiche, la filosofia. Quanto è proficuo questo approccio interdisciplinare e in che direzione sta andando?
Il paradigma della interdisciplinarità dovrebbe essere lo standard per tutte le humanities. In Italia però si prediligono le competenze settoriali e la produzione culturale si basa sulla divisione delle aree di conoscenza, non sulla loro aggregazione. Penso che questo sia un retaggio del positivismo tardo ottocentesco. Resta che qualsiasi tentativo di analisi su questioni complesse, come quelle che rientrano nell’agenda di chi esamina l’arte, richieda un approccio interdisciplinare. Non si può pretendere di affrontare il problema dell’arte dal punto di vista giuridico ignorando, per esempio, l’avanzamento della ricerca filosofica in ontologia.
Forse, in un futuro non troppo lontano, lo scambio tra discipline potrebbe tramutarsi in un vero e proprio paradigma di ricerca sulle arti basato appunto sulla interdisciplinarità. Che cosa ne pensa?
Penso che sia possibile. Se è vero che il canone estetico è morto con Duchamp, è altrettanto vero che l’artista di oggi è interessato a questioni che riguardano la società, la politica, i problemi morali, il linguaggio. L’arte presenta continuamente nuovi casi che possiamo affrontare in virtù di un continuo scambio tra discipline teoriche diverse. I problemi sollevati dall’arte contemporanea mostrano questa necessità. Il giurista è in dialogo con il filosofo, con lo storico dell’arte, il restauratore…
Sulla base di questo scambio, negli ultimi anni l’ateneo torinese ha dedicato parecchia importanza proprio al rapporto con l’arte e la creatività. Quali sono i principali esiti di questa progettazione?
Abbiamo lavorato su più fronti. Da una parte abbiamo mirato al consolidamento della presenza dell’arte nelle sedi dell’ateneo. Possiamo prendere come esempio sia le installazioni permanenti presso il Campus Luigi Einaudi sia quelle temporanee nella corte del Rettorato. Dall’altra, è stata attivata una collaborazione con la Fondazione Pistoletto per sviluppare un progetto più ambizioso: mettere in contatto mondo dell’arte e mondo accademico per stabilire delle connessioni che possono rivelarsi fruttuose sulla base di una collaborazione tra docenti e artisti.
L’ultimo progetto che avete in corso riguarda la Summer School internazionale che si terrà il prossimo settembre presso il Centro Conservazione e Restauro della Reggia di Venaria, e che sarà incentrata sull’identità e la conservazione dell’arte contemporanea. Come è nato questo progetto?
Il Centro di Conservazione e Restauro della Reggia di Venaria ospita un corso di laurea in Scienze e tecnologie del restauro, nato ormai più di vent’anni fa, incentrato principalmente sullo studio della scultura e della pittura. Da qualche anno, l’obiettivo è quello di ampliare le ricerche anche sul versante della produzione contemporanea. Le ragioni di questo ampliamento sono le medesime di cui abbiamo parlato fin qui. A queste si aggiunge l’esigenza che proviene dal mercato di avere restauratori che possano lavorare anche sulle opere contemporanee. Questo ci ha portato a progettare la Summer School che si terrà a settembre, mirando anche a rafforzare l’internazionalizzazione del Centro e a lavorare sullo scambio tra diverse prospettive teoriche. Abbiamo deciso di lanciare questa prima edizione in inglese con l’idea di avere maggiore visibilità internazionale, coltiviamo comunque l’idea di progettare le prossime edizioni anche in altri formati.
Chi sono i destinatari e quali obiettivi avete per le giornate di settembre a Venaria?
Riprendendo quanto abbiamo detto prima sulle possibilità dell’interdisciplinarità, il principale obiettivo di quei giorni è offrire un inizio di competenza per potenziare i profili di curatori, legali, artisti e restauratori. Ognuno di loro potrà conoscere meglio un pezzo del lavoro dell’altro. Si tratta di un’ambizione piuttosto importante, perché la divisione del lavoro disciplinare che menzionavo prima crea delle competenze identitarie che portano questi profili a lavorare settorialmente. Il tentativo è perciò di ottenere uno scambio sia teorico sia pratico. Da questo punto di vista, Summer School sarà un esperimento microdidattico di messa in campo del lavoro teorico e politico avviato in precedenza.
Davide Dal Sasso
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