Dialoghi di Estetica. Parola a Tiziana Andina
Filosofa, Tiziana Andina insegna ontologia presso l’Università degli Studi di Torino. Il dialogo - anzi, questo meta-dialogo - verte sul format interdisciplinare “Dialoghi di Estetica”, sui rapporti tra filosofia dell’arte ed estetica, sulla nozione di “mondo dell’arte” e sull’eredità filosofica di Arthur C. Danto.
Iniziamo con il format Dialoghi di Estetica: la seconda e la terza edizione della sua versione didattica e divulgativa hanno fatto parte del progetto di Summer School ideato dal Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli. La ritieni un’esperienza riuscita?
Direi fondamentale, per due ragioni. Intanto per la sede. Il Museo del Castello di Rivoli è un luogo davvero privilegiato in cui ragionare di arte, e di arte contemporanea in particolare. Poi perché il progetto Summer School, ideato da Anna Pironti, è un progetto ambizioso che intende coniugare la didattica alla ricerca: un binomio fondamentale se miriamo a realizzare una diffusione seria e competente dell’arte contemporanea. Sappiamo tutti che l’arte, soprattutto quella contemporanea, ha spesso bisogno di un supplemento di spiegazione. Se non ci riusciamo, se le istituzioni non lo comprendono, ci sarà sempre chi – come nel film di Alberto Sordi – entrando in un museo penserà: “In fondo che c’è di difficile? Avrei potuto farlo anch’io”.
I beni culturali e le arti sono una delle ricchezze che il mondo più c’invidia e che rendono il nostro Paese un posto meraviglioso. Bisogna che le persone lo capiscano e che smettano di considerare Venezia o Pompei luoghi qualunque. È necessario che capiscano le ragioni per cui gli Uffizi, il Castello di Rivoli, il Maxxi a Roma oppure il Madre a Napoli fanno tutti la stessa cosa: conservano ed esibiscono i modi in cui lo spirito umano ha preso forma. Piacciano oppure no. E, facendo questo, contribuiscono a creare quella cultura che è insieme la ricchezza morale e materiale di un Paese.
I Dialoghi di Estetica sono il frutto di un progetto interdisciplinare, che prevede l’interazione tra differenti aree quali la filosofia dell’arte, l’estetica, il diritto, la storia e la critica d’arte, coinvolgendo direttamente anche gli artisti. Come valuti questa impostazione, piuttosto inusuale in Italia, rispetto alla possibilità di approfondire le questioni dell’arte di oggi?
Uno dei teorici più rilevanti della estetica italiana, Luigi Pareyson, era solito ripetere che la filosofia non si deve occupare delle opere quando riflette sull’arte. Ho sempre pensato che fosse una posizione paradossale: sarebbe come dire che i fisici dovrebbero tenersi distanti dallo studio della materia.
Non credo che un filosofo che si occupa di filosofia dell’arte, oppure di estetica, possa muoversi diversamente: è necessario conoscere e rispettare la specificità delle arti e avere sensibilità interdisciplinare. Le arti incrociano moltissimi aspetti della vita umana e della ricerca. Non è possibile non tenere conto di questo, né possiamo immaginare teorie o scrivere libri senza prestare attenzione a quanto accade intorno a noi. L’estetica si è spesso autointerpretata come una disciplina a sé stante, talune volte intendendosi addirittura come qualcosa di separato dalla filosofia. Questo non può essere, nel senso che quando l’arte pone un problema filosofico, o si pone come problema filosofico, è la filosofia tutta che deve essere messa in movimento per organizzare delle buone risposte.
Dagli Anni Sessanta del secolo scorso l’arte è profondamente mutata. Negli stessi anni, in Italia, numerosi filosofi – penso a Eco, Garroni, Formaggio, Anceschi, Migliorini – hanno dato voce al dibattito filosofico sulle arti in conformità alla ricerca fenomenologica e semiotica. Qual è lo stato attuale della filosofia dell’arte? E quale ruolo ha oggi l’ontologia per le ricerche in corso?
È vero: l’Italia ha una tradizione molto interessante in filosofia dell’arte e, personalmente, sono dell’idea che sarebbe necessario operare in modo più deciso non solo per riattualizzarla, ma per farla conoscere meglio all’estero.
Ciò detto, mi pare che la filosofia occidentale si stia addentrando in un percorso di sintesi o, se si preferisce, di superamento della frattura tra le due grandi tradizioni filosofiche del Novecento: la continentale e l’analitica. Alcune discipline – la filosofia dell’arte è tra queste – stanno senz’altro favorendo questo processo. Attraverso l’ontologia, certo, ma anche attraverso l’attenzione alla storia e, quando necessario, all’estetica. In taluni casi non temendo neppure di misurarsi con la critica d’arte. Sicché, la filosofia dell’arte gode di ottima salute, così come del resto la filosofia nel suo complesso, che continua a misurarsi con sfide affascinanti.
Nel tuo libro del 2012, Filosofie dell’arte, scrivi che “la filosofia dell’arte e l’estetica potrebbero non incontrarsi mai, dal momento che i rispettivi oggetti non coincidono”. Quali sono i motivi di questo divario?
Gli oggetti artistici e gli oggetti estetici non coincidono o, almeno, non coincidono necessariamente. In altre parole, possiamo benissimo avere opere d’arte che non esibiscono alcuna proprietà estetica e oggetti naturali oppure artefatti non artistici che ne esibiscono moltissime. Spesso un tramonto è bellissimo, mentre opere come Tibidabo di Diether Roth non mostrano nessuna proprietà estetica, a meno di non considerare quel “nervoso” che prende chiunque ascolti l’abbaiare di un cane per ore una proprietà estetica. Perciò sostengo che l’estetica non si occupa necessariamente di opere d’arte, mentre l’arte è il dominio di interesse specifico della filosofia dell’arte.
Parliamo di “mondo dell’arte”. Anziché considerarlo come una vera e propria istituzione appartenente alla nostra realtà sociale, lo intendi piuttosto come un costituente teorico utile a dare stabilità ad alcune posizioni filosofiche sull’arte; tra queste, la teoria istituzionale elaborata dal filosofo americano George Dickie. Qual è la tua posizione in proposito?
Sì, è più o meno così. Anzi, per la verità considero il mondo dell’arte come un costrutto teorico poco utile anche per la fondazione delle teorie istituzionali che, infatti, vengono invalidate proprio dal fatto che scambiano quello che tutt’al più possiamo considerare come una “quasi-istituzione” – il mondo dell’arte – per una istituzione vera e propria. Non è il mondo dell’arte a poterci dire che “cos’è un’opera d’arte”; quello che il mondo dell’arte fa, e può fare, è gestire il mercato che ruota intorno all’arte.
Tuttavia, il ruolo del mondo dell’arte – ai fini del riconoscimento, la condivisione e la fruizione delle opere nella nostra società – è duplice: oltre al mercato, nella sua accezione strettamente economica e istituzionale, vi sono anche una rete di relazioni essenzialmente sociali e comunitarie che contraddistinguono il mondo contemporaneo dell’arte.
Non ho mai inteso ridurre il mondo dell’arte al solo aspetto mercantile anche se, certamente, la componente mercantile oggi è rilevantissima. Se stiamo alla descrizione che George Dickie ha dato del mondo dell’arte – e che mi pare, in prima approssimazione, buona – possiamo dire così: “Il nucleo che compone il mondo dell’arte è un gruppo di persone organizzato in modo lasco, ma legate da una qualche relazione, che include artisti (pittori, scrittori, compositori), produttori, direttori di museo, visitatori di musei, giornalisti culturali, critici che lavorano per ogni sorta di pubblicazione, storici dell’arte, teorici dell’arte, filosofi dell’arte e così via. Queste sono le persone che fanno funzionare il mondo dell’arte e con ciò si occupano di mantenerlo in esistenza. In aggiunta, ciascuna persona che si considera un membro del mondo dell’arte è per questa sola ragione un suo membro”.
Ora, se questa descrizione coglie bene un dato di realtà – e credo che effettivamente lo colga – è comunque necessario domandarci per cosa s’intenda utilizzarla. Se intendiamo farne la base per una teoria che ha come scopo quello di catturare le proprietà essenziali delle opere d’arte, allora mi pare che non serva a molto, come mostrano le teorie che ci hanno provato. Le reti di relazioni a cui ti riferisci senza dubbio gestiscono molto bene il mercato e, in questo, non c’è nulla di male. In Filosofie dell’arte provo invece a sostenere che il mondo dell’arte, rigorosamente parlando, non esiste: esistono i singoli attori di quel mondo, la rete delle relazioni che intercorre tra una molteplicità di agenti tutti interessati a vario titolo all’arte, ma l’istituzione “mondo dell’arte” non è da nessuna parte, la postuliamo noi, per comodità.
Alla fine del tuo libro scrivi che una buona filosofia dell’arte dovrebbe considerare una triplice polarità: “L’oggetto fisico, il soggetto congiuntamente alla sua realtà sociale e, infine la storia di quella particolare narrazione che è la storia dell’arte”. Un’osservazione che rievoca il tuo forte legame con Arthur Danto, maestro della filosofia dell’arte scomparso lo scorso ottobre. Quanto contano le sue posizioni teoriche ai fini degli sviluppi della tua ricerca?
Moltissimo, come giustamente noti. Ritengo che La trasfigurazione del banale sia il capolavoro espresso dalla filosofia dell’arte del Novecento. Danto ha ricollocato la riflessione sull’arte sulla giusta strada, dopo che le avanguardie avevano operato una frattura all’interno delle pratiche artistiche che la filosofia doveva farsi carico di spiegare e di interpretare.
Detto questo, esistono elementi della riflessione dantiana che credo vadano riformulati o superati: penso, per esempio, alla sua idea di post-storia, oppure alla sua radicale chiusura nei confronti dell’estetica. Ma questo è nelle cose o, meglio, nella naturale evoluzione della filosofia.
Quali saranno, secondo te, i costituenti teorici della sua filosofia dell’arte che permarranno e avranno maggiore salienza per gli sviluppi delle ricerche future (pensando anche ai suoi studi su azione e narrazione)?
Allo stato attuale di quello che possiamo conoscere, vedere e immaginare, credo che la teoria di Danto sia quella che meglio di tutte coglie l’essenza dell’arte. Danto ci ha insegnato che per capire che cos’è l’arte dobbiamo disporre di una metafisica generale e dobbiamo chiederci moltissime cose che, a prima vista, c’entrano assai poco con le questioni che il senso comune associa all’arte. Dobbiamo domandarci come conosciamo, che cosa vuol dire formulare giudizi veri, dobbiamo chiederci se la verità dei romanzi di Saviano è la stessa verità contenuta nei faldoni processuali di cui quei romanzi parlano. Dobbiamo chiederci perché Platone considerava quella degli artisti – di quasi tutti, tranne i musici – una attività riprovevole, e perché noi invece accordiamo così grande valore alle opere. Un valore tanto elevato da tutelarle e proteggerle più di quanto spesso ci accada di fare con la vita umana. Che cosa è quel qualcosa che valutiamo così tanto? Nel rispondere a questa domanda non dobbiamo scordarci che quel qualcosa lo posseggono anche taluni oggetti ordinari, se accade che alcuni di questi vengono tutelati allo stesso modo dei capolavori dell’arte classica. Che cosa è l’arte e che cosa ha valore dell’arte e nell’arte?
Danto ci dice una cosa semplicissima: che le opere (proprio tutte, si badi bene, a prescindere dal momento storico in cui sono state create e dallo stile che le individua) sono dei significati che gli artisti incorporano nei corpi delle opere. Questo è il nucleo essenziale della teoria che Danto spiega e approfondisce in modi straordinariamente sottili e acuti, e che egli stesso ha applicato centinaia di volte nelle sue riflessioni di critica d’arte. Mancherà moltissimo a tutti gli amanti della filosofia e dell’arte.
Davide Dal Sasso
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