Dialoghi di Estetica. Parola a Paola Pasquaretta

Che cosa c’è dietro la realizzazione di un’opera d’arte e quali percorsi segue? Ne abbiamo parlato con Paola Pasquaretta.

Dopo la laurea in Arti Visive e dello Spettacolo presso l’Università IUAV di Venezia, Paola Pasquaretta (San Severino Marche, 1987) ha frequentato il Master di Alta Formazione sull’Immagine contemporanea istituito da Fondazione Modena Arti Visive. La sua ricerca si basa sull’analisi di un paesaggio che nasconde situazioni inaspettate, instabilità e presupposti di variabilità permanente. Ha esposto le sue opere in diverse sedi fra le quali: Palazzo Ducale di Urbino, Palazzo Re Rebaudengo, Fondazione Spinola Banna per l’arte, il festival Les Rencontres d’Arles. Ha vinto il Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee nel 2016. Il dialogo si sofferma su alcuni aspetti della poetica di Pasquaretta: il ruolo del racconto, dei sistemi di relazione e dei punti di vista; l’indagine sui mezzi espressivi e sulla rappresentazione; l’interesse per la discussione e il pensiero critico incentivati dall’arte.

Un elemento che credo consenta di accomunare le tue opere – penso per esempio a Acquedotto, L’orizzonte degli eventi, Diorama – è la tua ‘necessità narrativa’.
Hai individuato un elemento fondamentale della mia ricerca. Mi affascinano le storie, per questo i miei lavori nascono spesso da fatti reali o da racconti di luoghi e di persone che ho incontrato. Vale anche per le opere che hai citato. Acquedotto, ad esempio, è una serie di fotografie apparentemente molto formali che descrivono la gestione dell’acqua nel territorio del Lagorai. Alla base della creazione di quelle immagini c’è però la storia di un paesaggio frequentato in modo anomalo – il sottosuolo – scoperto attraverso il racconto di chi quei luoghi li vive.

Quale potrebbe essere la ragione di questo interesse per il racconto?
Forse il racconto potrebbe essere pensato anzitutto come un lavoro con il tempo. Perché, comunque, in tutte le mie opere c’è una scansione temporale. La narrazione mi spinge a lavorare in direzioni diverse: sugli spazi, sui materiali, ma soprattutto sulle tecniche rappresentative.

Spesso il tuo uso della fotografia concerne il soggetto dell’opera, gli aspetti della narrazione. Diversamente, le tue opere dedicate al tema del vulcano presentano un importante cambiamento nel tuo lavoro: quello che offri appare come un racconto sulle possibilità della elaborazione materiale, sulle resistenze che presenta.
Nel caso di Vulcano il discorso narrativo è nella realizzazione dell’opera. Le fotografie mostrano l’immagine ideale del vulcano modellata utilizzando un materiale in lotta contro il tempo: la schiuma. Ritrarla è questione di pochi istanti, quelli di uno scatto, che restituiscono il suo aspetto in un preciso momento. Poi ci sono le sculture (Etna, Vulcano, Lipari, Panarea, Stromboli, Vesuvio): sono realizzate lavorando un tipo particolare di sapone che nel tempo si trasforma in qualcosa di totalmente diverso. Il cambiamento che rilevi credo quindi dipenda da alcuni aspetti caratteristici dell’opera che racconta le trasformazioni della materia, registra lo scorrere del tempo e rinvia a una narrazione più grande, quella geologica, alla quale naturalmente appartengono i vulcani.

LA NARRAZIONE NELL’ARTE DI PAOLA PASQUARETTA

Nelle tue opere, il racconto sembra essere tanto un punto di partenza quanto un risultato che riesci a conseguire.
Come ti dicevo, tutto parte dal mio interesse per una storia. C’è anzitutto una sorta di innamoramento. Poi la scoperta di qualcosa di più profondo che era rimasto nascosto. La creazione dell’opera è la naturale evoluzione di questo processo: il passaggio da quella scoperta al poterla raccontare avviene attraverso il lavoro sull’opera con mezzi espressivi diversi.

Consideriamo un momento il tuo interesse per i mezzi espressivi. Come lo spiegheresti?
Partiamo dal presupposto che ogni opera per essere tale ha bisogno del suo mezzo. Sia che decida di creare una fotografia o un video, mi interessa capire quel preciso strumento a livello tecnico e cosa, con le sue determinate caratteristiche, mi permette di mostrare. Scegliere di utilizzare un mezzo piuttosto che un altro è importante al fine di riuscire a raccontare quello che voglio. In ogni caso, l’analisi dei mezzi espressivi non è l’aspetto predominante dei miei lavori, tantomeno il fine, tutt’al più è un modo ulteriore per approfondire un soggetto.

Guardando le tue opere ho pensato più volte a un termine che mi sembra pertinente, ‘noosfera’, usato per sottolineare tanto le potenzialità del pensiero umano quanto il più ampio sistema di relazioni nel quale si impiegano in rapporto con diversi ambienti, la natura e gli altri esseri viventi.
Benché sia io a realizzare le mie opere, non è scontato che parlino di me. Certo, può sempre succedere. Ma ciò avviene nella misura in cui io sono parte di un insieme di relazioni che vanno al di là di me: una rete di relazioni naturali, culturali, sociali nelle quali io rientro. Gesti che sembrano minimali e quotidiani – come per esempio quello di manipolare il sapone –, in realtà, sono rivolti al tentativo di parlare di qualcosa di più ampio. L’attenzione per l’ambiente, per come stiamo fisicamente negli spazi in cui agiamo. È qualcosa che alla fine ci riguarda in quanto esseri umani. Si tratta perciò di una osservazione sulle nostre capacità, sulla nostra finitezza, sulle nostre risorse e potenzialità che possono presentarsi e rinnovarsi nel tempo.

ARTE E SPECIFICITÀ

Questi aspetti risaltano in particolare in una tua opera, Diorama, installazione esposta al Palazzo Ducale di Urbino nel 2019. In essa il sistema di relazioni tra gli elementi esposti, la posizione di chi interagisce con l’opera e la possibilità di avere un punto di vista sono decisivi.
Sì, e lo sono ancor di più grazie alla specificità dell’installazione. A Palazzo Ducale, per osservare l’opera nella sua interezza era necessario girarle attorno e passare in mezzo alla linea di tiro: tra il fucile e il diorama. Quest’aspetto era molto importante per me. Indirizzare il pubblico a seguire un determinato percorso espositivo è stato cruciale per indurlo a relazionarsi con l’opera ma anche per entrare a farne parte. Attraversare la traiettoria del fucile (una carabina ad aria compressa) voleva dire essere al centro del campo visivo: diventare soggetto del mirino, il cuore del diorama, forse anche un vero e proprio bersaglio.

La specificità che menzioni caratterizza anche altre tue opere – per esempio, Ping Pong e My baby shot me down – e credo si basi in particolare sulla possibilità di offrire a chi farà la loro esperienza inaspettati capovolgimenti del punto di vista, repentini cambi di posizione.
Nonostante nel mio lavoro si presenti successivamente alle indagini sul soggetto, sui materiali e sulla sua realizzazione effettiva, il tema della fruizione per me è molto importante. L’esperienza diretta dell’opera, viverla in presenza, è fondamentale proprio perché consente di ottenere quegli esiti che hai ben visto. La specificità delle mie opere, o se preferisci la loro natura site specific, si basa sul legame con il luogo in cui si trovano, che consente di stabilire determinate modalità di esperienza e visione che altrove cambierebbero o che altrimenti non ci sarebbero.

Procedendo in questo modo tu lavori molto anche sulla possibilità di introdurre delle varianti sul piano della rappresentazione, come si vede bene nell’opera Ping Pong.
Sì, è una questione legata anche alle mie riflessioni sull’uso dei mezzi espressivi. Mentre sono al lavoro su un’opera si presentano spesso numerose domande: che cosa significa utilizzare una immagine? E perché proprio quella immagine piuttosto che un’altra? Fino a che punto si può distinguere l’immagine dall’oggetto? Alla fine, sono tutte considerazioni sulla rappresentazione. Ping Pong è un ottimo esempio in questo senso: la pallina e l’aspiratore sono oggetti che valgono per quel che sono. Poi però c’è una immagine, quella del panda, che viene s-composta sovrapponendo diversi layer. Anche in questo caso credo ci sia un lavoro sul punto di vista. Costruendo l’immagine in quel modo c’è una alterazione della rappresentazione. Ecco, io quest’ultima la penso di nuovo dall’interno di una domanda sulla natura dell’immagine come oggetto e soggetto.

Paola Pasquaretta, Acquedotto, 2014, c print, 70 x 46 cm

Paola Pasquaretta, Acquedotto, 2014, c print, 70 x 46 cm

CHE COSA VUOL DIRE FARE ARTE

Con mezzi diversi, fotografia, video, installazioni, la tua sembra anche una indagine su che cosa voglia dire ‘fare arte’. Mettendo in discussione tanto i mezzi espressivi che usi quanto la natura stessa delle tue opere, spesso proponi una critica alla pratica artistica muovendola direttamente dall’interno del tuo lavoro.
Credo tu abbia ragione. Mi interessa capire perché fare arte e perché farla in un certo modo. È una analisi molto personale anche se può ovviamente chiamare in causa il discorso sulla natura stessa dell’arte. Detto questo, non mi interessa fare un’analisi critica o teorica, piuttosto trovare un modo per riuscire al meglio nel mio lavoro. Questo tipo di ricerca è importante ma non è fondamentale. Lo dico perché è un tema ma non il solo.

Certo. La tua poetica, infatti, consente di affrontarne molti altri. My baby shot me down spiazza chi ne fa esperienza: si crede di osservare qualcuno ma ben presto ci si ritrova osservati, sotto tiro.
È un’opera che riesce bene a dichiarare il mio modo di fare arte. Attraverso quella serie di scatti ho cercato di sottolineare lo scambio tra soggetto e oggetto. Un po’ come accade per l’opera Diorama, di cui abbiamo parlato prima. In My baby shot me down il ritratto fotografico è un espediente per attivare una riflessione sul punto di vista, sulla direzione dello sguardo, sulla traiettoria del tiro. Siamo l’oggetto o il soggetto dell’immagine? E poi, c’è un’arma puntata verso chi osserva la fotografia. E questo è un altro discorso.

La tua indagine sul punto di vista apre anche a riflessioni sulle relazioni umane e sociali: è emblematica la tua opera video Nonostante mia nonna e mia madre sappiano cucire, ricamare e confezionare abiti, la cerniera del cappotto che preferisco l’ha cambiata lui. I colori dei rocchetti di filo mi hanno sempre attratto. Quando sono tornata, per parlare, per fargli vedere il mio video, il negozio era chiuso. Affittasi.
Quell’opera nasce da esperienze personali. Un’esigenza pratica si è trasformata in un’occasione per realizzare un video. Comunque, sono d’accordo con te, qui si aprono altre riflessioni: le ragioni del consumismo, i limiti delle possibilità della riparazione, le trasformazioni del lavoro globalizzato. Entrano in gioco vari temi non apertamente dichiarati. Non mi interessa approfondirli, preferisco, o almeno auspico, che grazie a essa si possano affrontare in qualche modo. Con un dibattito, ad esempio. Anche breve, semplice o conflittuale. Mi piacerebbe nascessero delle domande. Tutto qui.

Come consideri quest’ultima possibilità?
Sono convinta che l’arte possa avere scopi diversi. Essa non offre solo la possibilità di fare esperienza delle opere e giudicarle in qualche modo. Penso piuttosto che renda possibile la formulazione di un pensiero con essa e a partire da essa. È molto importante creare le occasioni e i luoghi di formazione di un pensiero critico, aprire alla possibilità che una mia idea, il mio modo di fare, possano non essere condivisi ma messi in discussione.

Davide Dal Sasso

https://paolapasquaretta.weebly.com

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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