Vincenzo Ferlita (Santo Stefano Quisquina, 1990) inizia a frequentare lo studio di un pittore del suo paese natale dove apprende le sue istruzioni pittoriche tradizionali, svolge lezioni sulle tempere e nutre ammirazione per i panneggi di Tiziano. Nel 2004 decide di intraprendere gli studi presso l’Istituto d’Arte di Sciacca e consegue il diploma professionale nel 2009. In seguito si trasferisce a Palermo per iscriversi al corso di Pittura all’Accademia di Belle Arti e, da esterno, segue anche il corso di Pittura di arte sacra, studiando varie tecniche pittoriche, in particolare quelle fiamminghe e barocche. Nel 2013 consegue la laurea triennale di primo livello in Pittura. Dopo pochi mesi decide di trasferirsi in Germania per studiare il tedesco e andare alla scoperta di nuovi stimoli per la sua ricerca artistica. Ritorna a Palermo nel 2016, dove attualmente risiede, per continuare gli studi in Accademia. Nel 2019 conclude il biennio specialistico di secondo livello in Pittura. Tra le sue mostre personali: Area Wernicke, L’Ascensore, Palermo, 2018; Astratto Concreto, RizzutoGallery, Palermo, 2020. Tra le mostre collettive: Attraverso i punti #1, Palazzo Ziino, Palermo, 2016; All you can see, RizzutoGallery, Palermo, 2018; La ripetizione è una forma di cambiamento, Haus der Kunst, Düsseldorf ‒ Cantieri Culturali alla Zisa, Palermo, 2019.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
Fin da bambino disegnavo sempre. Ricordo ancora quando accidentalmente a casa trovai una scatola contenente delle tempere e provai a dipingere qualcosa. Decisi di voler tentare con la riproduzione di un’opera. E così presi un libro d’arte e fui attratto da un quadro, un vaso di girasoli firmato “Vincent”, e decisi di riprodurlo. Così capii che volevo diventare pittore.
Chi sono gli artisti e i maestri cui guardi?
Guardo spesso le visioni compositive di Beato Angelico, Serge Poliakoff, Franz Ackermann, Jean-Michel Basquiat, Andrea Büttner, Abraham Cruzvillegas, Roberto Cuoghi. Sono anche attratto dalle superfici pittoriche e tecniche di Tiziano, Rembrandt, Jusepe de Ribera, Giorgio Morandi, Max Bradford, Felipe Pantone, dal rapporto con lo spazio che hanno Pablo Picasso, Daniel Buren, Kerstin Brätsch, Hito Steyerl, Zimoun e tanti altri.
La storia, la tradizione della pittura incidono sulle tue opere o nella scelta dei soggetti?
Sicuramente sulle mie opere, in modo inconscio, c’è un’influenza sia della storia sia della tradizione della pittura, come ad esempio nella scelta dei miei soggetti.
Perché la scelta della astrazione che ogni tanto flirta con la figurazione?
Non so il vero motivo, avviene in modo naturale. La mia è una pittura meditativa, non progetto mai un quadro su carta prima di realizzarlo. Prima lo facevo, oggi metabolizzo mentalmente l’immagine e la realizzo progressivamente sulla tela, anche se l’idea pensata si modifica durante il processo d’esecuzione. Vengo inglobato in un’altra dimensione, mi lascio trasportare dal flusso di pensieri, dai colori che mi circondano, dai ricordi, da una semplice luce che filtra, dalle persone che incontro o dalle immagini reali/virtuali che osservo nel quotidiano.

LA PITTURA SECONDO FERLITA
Come definisci l’Astratto Concreto? Reinterpretare osservazioni, suggestioni e dati della realtà. Anche la natura trova posto nelle tue opere. Hai fatto nature morte, pozzanghere…
Ho dipinto una natura morta di grande dimensione e delle forme in gomma e vernice intitolate Pozzanghere. Quest’opera appartiene ai primi periodi di sperimentazione, quando iniziai ad allontanarmi da un tipo di pittura “iperrealista”, prediligendo così la sintetizzazione della figura e la sua scomposizione. Ad esempio, nel quadro della Natura morta ho attuato questo processo scomposizione/composizione dell’immagine reale. L’immagine iniziale era un disegno dal vero di piazza San Domenico a Palermo che ho dipinto in un giorno d’estate.
Il disegno che ruolo svolge nella tua pratica?
Il disegno è molto importante perché mi aiuta nel momento del creare e dell’ideare. Ho sempre disegnato ed è una delle pratiche che prediligo in modo particolare. Un’altra pratica che preferisco è fare incisione. Disegno molto la mattina appena sveglio e durante le pause. È un esercizio intimo.
La ripetizione è una forma di cambiamento era il titolo di una collettiva cui hai preso parte. Da dove è stata presa questa citazione? Può essere considerata una sorta di dichiarazione di poetica?
Sì, era il titolo di una mostra collettiva alla quale partecipai su invito. A quella mostra parteciparono diversi artisti e ne conservo un ricordo molto piacevole. Essa non esprimeva la teoria enunciata nel titolo, ma si basava principalmente sulla ripetizione in ambito formale e si riferiva alle figure geometriche. La citazione è contenuta in Strategie oblique del musicista Brian Eno e dall’artista Peter Schmidt e consiste in una serie di aforismi e consigli che i due utilizzano per superare i blocchi creativi. Inoltre, nella stessa mostra ho anche installato un quadro dal titolo LUX-FIGURA (luce-forma) dove ho inserito varie forme geometriche, spazi, vuoti e un’immagine scultorea di Platone a simboleggiare i concetti cardine della filosofia greca, ovvero quello delle “Idee” (da èidos, “forma”), le quali sono collocate in un luogo al di là della realtà fisica, ossia l’Iperuranio.
La tua è una pittura lenta o veloce?
Molto lenta, ma allo stesso tempo veloce nell’esecuzione di una forma. La definirei come un togliere e mettere del colore. Quasi tutti i miei lavori sono delle tecniche miste e uso materiali diversi, come, ad esempio, olio, tempere, smalti, acrilici, vernice, che si contrastano tra di loro. Per rendere una pittura omogenea visivamente devo rispettare i tempi di asciugatura di ogni singolo materiale applicato, che comporta lunghe ore, o anche giorni, di attese e nel frattempo produco disegni o pitture su carta.
Cosa rappresenta lo spazio per te?
Il tutto o il vuoto totale.
E la dialettica figura/sfondo?
Creare mappature con vari livelli di prospettiva, segni, vuoti, intervalli, sospensioni, linee. Caratteristiche che destabilizzano lo sguardo tra la figura e lo sfondo, una vera e propria reazione percettiva, causata dall’utilizzo di vari colori da cromie alterate che definiscono le varie forme staccandosi dallo sfondo.

TITOLI E FONTI DI ISPIRAZIONE
Come nascono i titoli delle tue opere?
In realtà capita anche che sia un’opera che nasce da un titolo che scelgo osservando ciò che mi circonda, da vari elementi che mi condizionano, oppure, il più delle volte, terminato il dipinto, è esso stesso a suggerirmi il suo titolo.
Come si è trasformato il tuo lavoro nel tempo?
Da un processo diretto istintivo a un processo più controllato, quasi automatico e maturo, ma non abbastanza… E per fortuna direi! Altrimenti avrei già smesso.
Perché vuoi “intrappolare lo sguardo”?
I miei lavori, in un certo senso, sono “schermi di colori luminosi”. Come un qualsiasi schermo luminoso, essi vanno guardati.
Cosa rappresenta il colore? E la luce?
Tutto ciò che vediamo o cosa vogliamo vedere.
E il segno?
Il segno è l’impronta digitale che ci rivela le emozioni e le caratteristiche individuali.
Come il dato emozionale si innesta nei tuoi lavori?
Principalmente durante il processo d’esecuzione, con il segno, la pennellata, la figura, la scelta dei colori e dai titoli che assegno a un lavoro.
Quanto l’inconscio, l’automatismo rispetto a controllo e razionalità incidono sui tuoi lavori?
Prima utilizzavo solamente una tecnica in cui faceva da padrone l’inconscio, senza un vero e proprio controllo del gesto, del segno e dai soggetti realizzati in modo informale. Con il tempo, usando varie tecniche miste, rispettando le tempistiche di asciugatura, ho iniziato a seguire una pittura più riflessiva rispetto a prima, che ha comportato un rallentamento nell’esecuzione della forma e quindi un totale controllo della materia e del segno.
E ti sei interessato anche all’area di Wernicke…
Mi sono interessato all’area di Wenicke nella mia prima mostra personale, realizzata nel vecchio spazio L’Ascensore, uno spazio espositivo di 8 metri quadrati, che si trovava nel centro storico di Palermo. In quel periodo stavo leggendo un libro sulla percezione e psicologia della forma di David Katz (Psicologia della forma) e ho trovato interessante come reagisce il cervello alla vista di informazioni esterne. Tutto accade nel lobo frontale del cervello, nell’area di Wernicke, nella parte della percezione visiva che si collega nell’area della percezione del linguaggio chiamato Broca. Ho realizzato due grandi tele a simboleggiare queste due aree che occupavano l’intero spazio e facevano da contenitore, come la scatola cranica che contiene il nostro cervello, non permettendo al pubblico di varcare fisicamente la soglia dello spazio, se non con lo sguardo. L’effetto che si ottiene è simile a un’apparizione, che costringe a trovare una soluzione interpretativa che è legittimazione e giustificazione dello sguardo.

RIFLETTERE SULLA PITTURA
La tua è anche una riflessione sulla pittura, giusto?
La mia è una pittura riflessiva, fatta di pause e sigarette lasciate a metà.
Quali formati prediligi?
Varie misure, da piccoli a grandi formati, da un 30×20 cm fino a 300×200, ma sto già pensando di realizzare formati ancora più grandi se si presentasse l’occasione.
La tecnica conta?
È fondamentale, se si vuole creare l’impossibile.
La musica, il cinema, la letteratura, la poesia incidono sui tuoi immaginari?
Ascolto musica di vario genere, adoro i film e ultimamente trovo interessante il cinema sudcoreano. Leggo ciò che capita ed è raro comunque che queste varianti incidano sui miei immaginari, preferisco lasciarmi influenzare dalla vita.
Perché fare pittura oggi?
Per ricordarci che siamo esseri umani.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Esiste uno scenario ampio di artisti. È difficile oggi fare il pittore. Purtroppo risaltano quasi sempre gli stessi e solo per un pubblico di élite. A mio avviso, spesso gli artisti talentuosi non vengono quasi mai messi in luce, forse perché non vanno a genio a “qualcuno”. Inoltre, penso che viviamo in un’epoca dove in generale manca un massiccio interesse verso l’arte, solo in pochi prestano un sincero interesse e sono sempre meno quelli che desiderano possedere un’opera e che vogliono investire su giovani emergenti. Sicuramente un cambio generazionale sarebbe oggi necessario più che mai, per creare nuovi scenari utili alla pittura, e anche soprattutto necessari per i critici e i curatori, che nella maggior parte dei casi sono i soliti individui che dell’arte hanno fatto una professione dimenticandosi della “vocazione”.
‒ Damiano Gullì
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