Miss Goffetown (Fulvia Monguzzi, Desio, 1985) vive a Milano. Studia all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, partecipa a collettive e personali e organizza workshop. Dal collage all’acrilico, il suo manifesto è ironico e drammatico con uno sguardo sentimentale sul quotidiano. Un lavoro constante, frutto della sua necessità di vedere il pensiero in immagine.
Come ti sei avvicinata alla pittura?
L’ho sempre evitata, ma poi mi ha intrappolata.
Nell’introdurti sul tuo sito scrivi: “I paint a lot”. Quanto è questo “a lot”?
“A lot” è sempre troppo poco!
Parli del tuo uso degli occhiali e del vedere “la realtà sfuocata”. Che conseguenze ha tutto questo sulle tue opere?
La “cecità” mi porta alla mancanza di particolari di dettagli e mi costringe a concentrarmi sull’atmosfera. Tipo: “Non ho capito cosa dici, ma aveva un bel suono”.
Chi sono gli artisti e i maestri cui guardi?
Guardo tutti.
Come nasce il nome d’arte Miss Goffetown?
Me lo diede un compagno di Accademia quando mi presentai a un laboratorio di scultura in un bosco con ballerine e trolley combinando goffa e città.

LA PITTURA DI MISS GOFFETOWN
Disegno, illustrazione, collage, serigrafia, incisione, pittura… Come i confini si annullano e le tecniche e discipline si fondono e confondono?
Ogni tecnica asseconda un pensiero.
E hai, in realtà, iniziato partendo dalla scultura all’Accademia di Brera. Tridimensionalità / bidimensionalità come dialogano?
La cosa che mi interessava di più era il disegno trovare la tridimensionalità nella bidimensionalità. Ora è rimasto dell’accademismo che cerco di soffocare coi colori.
La tua è una pittura lenta o veloce? All’apparenza sembra molto istintiva e veloce…
Pittura veloce, ma più lenta dei pensieri.
Chi sono i soggetti delle tue opere?
Niente foto. Prendo appunti, faccio liste, disegno dal vivo, cerco di ricordare quello che ho visto. Devo tradurre la realtà nel mio linguaggio per cercare di capirla.

LE OPERE DI MISS GOFFETOWN
Come nascono i titoli delle tue opere? In molti casi sei tu che parli in prima persona.
Scrivo in prima persona perché mi è più comodo… Ma io sono tutti.
Come si è trasformato il tuo lavoro nel tempo?
Il mio lavoro è diventato più solido, più personale, meno caotico, più ritmico, ma è in continuo divenire.
La carta cosa rappresenta per te? E il colore?
La carta è la libertà. Il colore è il linguaggio.
Quali formati prediligi?
Piccoli, medi, più o meno sempre. E poi ho dei giorni di ambizione in un mese dove mi ingrandisco.
La tecnica conta?
La pittura non come tecnica, ma come gesto quotidiano, come un autodafé, un atto di fede, l’unico, credo, che ho, né Dio né Stato. La pittura è come una fidanzata capricciosa che richiede sempre attenzioni, che ti sveglia nel cuore della notte per sapere se dormi, poi lei si addormenta lasciandoti insonne.
La musica, il cinema, la letteratura, la poesia incidono sui tuoi immaginari?
Sì, tutto incide.
Perché fare pittura oggi?
Cos’altro c’è da fare?
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Mi piace!
‒ Damiano Gullì