Pittura lingua viva. Parola a Marta Ravasi

Viva, morta o X? 62esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.

Marta Ravasi nasce a Merate nel 1987, vive e lavora a Locarno. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera, frequentato la Hogeschool Sint Lukas, a Bruxelles, e ha conseguito un MA in Fine Art al Wimbledon College of Arts, Londra. Tra le sue ultime mostre e partecipazioni: Q-Rated, workshop, Nuoro, 2019; Regular Dreams, la Rada, Locarno, 2019; Violette di Marte, Fanta, Milano 2017.

Come ti sei avvicinata alla pittura?
La pittura mi ha sempre un po’ turbata, allo stesso tempo mi ha anche dato momenti di forte consolazione ‒ parlo del guardarla ‒ e forse questo è quanto spero un quadro possa fare.

Hai affermato che parti dalla tela e dal pennello e che l’immagine viene dopo… Cosa intendi? C’è meno lavoro preparatorio e più spontaneità/estemporaneità nella definizione di soggetto e composizione?
Con queste parole intendevo rafforzare il fatto che la mia pittura è così ed è questa perché deriva dalla decisione drastica di definire la mia pratica tra questi termini e spazi specifici: lo spazio prima di tutto e poi il colore che si espande su una tela, che è un rettangolo teso dai confini precisi che sono come precipizi. Qui in questo luogo, che a volte mi sembra diventare enorme, la figura compare e si crea: dopo. Ma è strano perché non vi è un prima e un dopo nel loro senso temporale, infatti è probabile che questa immagine ci fosse già ben prima della tela. Intendevo quindi più insistere sul fatto che prima, prima di tutto, che accada qualcosa, la definizione di questo spazio (della tela, della materia e del pennello) viene prima per importanza.

Marta Ravasi, Petite Patisserie, 2016, olio su tela, 55 x 43cm. Photo Roberto Marossi

Marta Ravasi, Petite Patisserie, 2016, olio su tela, 55 x 43cm. Photo Roberto Marossi

C’è una sorta di fil rouge, di legame, di ricorsività tra tutti i tuoi quadri: è un elemento che emerge man mano o c’è la volontà di creare una sorta di serie? O quasi di pensare l’intero corpus di lavori come un’unica grande opera in divenire?
Il concetto di serie non mi appartiene e non credo possa essere associato. Cerco di lavorare su tanti quadri, o meglio, di disporre di tante tele, ma di concentrarmi poi su uno e unico elemento alla volta. Credo che un quadro si meriti di risolvere un problema formale suo e questo mi sembra di farlo ogni volta in un modo diverso.

L’errore, la correzione, il ripensamento, la stratificazione, l’aleatorietà… Quanto incidono sul tuo lavoro?
Incidono molto partecipando alla definizione della forma finale e ne sono spesso la diretta causa. Interrompo processi lunghi con cancellazioni e cambi di direzione molto repentini, il colore diventa sempre più complesso, le forme cambiano velocemente ma ci sono anche pause e poi ancora sabotaggi. Questo mi sembra l’unico modo possibile per procedere, ma, pur sembrando un’attitudine molto specifica, penso sia una caratteristica della pittura stessa, la quale non credo sia legata a qualcosa di indomabile solo per me.

Che ruolo ha il colore?
Mezzi grigi, mezzi viola, toni poco più scuri o chiari di altri. Tinte belle, ricche, diverse, tinte trasparenti oppure opache, labbra gloss o mat. Mischiare i colori senza pensarci, mischiarne troppi, cambiamenti veloci, impazziti, fino a farli diventare sgradevoli o gradevoli. Solo alcune regole. A volte non riesco a fermarmi, diventa tutto di nuovo liquido e riparto da capo. Insomma, il colore mi dà un gran piacere.

Si percepisce sempre sottotraccia anche una componente di malinconia, è una lettura corretta?
Malinconia, depressione, spesso c’è euforia. È possibile? Non so, forse è la scelta dei colori… Ma trovo importante che le forme siano comunque composte, anche quando non lo sembrano, forse questo ha a che fare con l’attenzione ai confini del quadro di cui parlavo all’inizio e la conseguente importanza degli angoli che le contengono.

Marta Ravasi, Untitled, Mussle, 2016, olio su tela, 35 x 47 cm. Photo Roberto Marossi

Marta Ravasi, Untitled, Mussle, 2016, olio su tela, 35 x 47 cm. Photo Roberto Marossi

Come scegli i soggetti delle tue opere? Spille, frutti di mare, fiori, frutta: soggetti molto semplici, talvolta evocativi di un certo lusso ma un po’ decadente, fané, come anche la restituzione che tu ne fai in pittura…
I soggetti sembra mi si trovino in mano casualmente, ma vorrei rispondere in altro modo aggiungendo: casualmente come ne L’amante di Marguerite Duras (1984) – che lessi da bambina e mi colpì molto ma al quale solo ora ripenso –, la protagonista quindicenne, sul traghetto che attraversa il fiume Mekong, dove incontrerà il suo amante cinese, indossava un cappello da uomo con la tesa piatta, di feltro rosa e un largo nastro nero e un paio di scarpe lamé dorato. Questi due oggetti continuamente nominati occupano diverse pagine e diverse descrizioni all’inizio del libro, talmente belle da non poterne sceglierne una da riportare qui come esempio. Il cappello e le scarpe hanno potere e sono stranamente necessari alla narrazione, che mantiene però sempre uno stile molto spoglio.
Sul traghetto, guardatemi, li ho ancora. Quindici anni e mezzo. Ho già cominciato a truccarmi, adopero la crema Takalor per cercare di nascondere le lentiggini che ho sulle guance, in alto, proprio sotto gli occhi. Dopo la crema metto una cipria chiara, marca Houbigian; è la cipria che mia madre usa per andare ai ricevimenti dell’Amministrazione Generale. Quel giorno ho anche il rossetto, rosso scuro, come si usava allora, rosso ciliegia. Non so come me lo fossi procurato, forse Hèlene Lagonelle lo aveva rubato per me a sua madre, non ricordo più. Non ho profumo, in casa nostra si adopera l’acqua di colonia e il sapone Palmolive”. La immagino bene così, con le scarpe e con il cappello.

Quanto la musica, il cinema, la letteratura influiscono sui tuoi lavori e sulla tua poetica?
Non credo possa esserci una relazione diretta di questo tipo, si tratta più di un’influenza lunare. Allo stesso tempo credo che alcune letture o alcuni film abbiano provocato dei seguiti nella mia vita abbastanza pratici. Ad esempio leggere alcuni romanzi mi ha permesso di provare emozioni che non avrei ancora potuto conoscere, come in quanto prima citato, è l’arte. Ultimamente ho visto per la prima volta La Pelle, film di Liliana Cavani (1981), tratto dal romanzo omonimo di Curzio Malaparte, e il film ha preso posto in me più della mostra La Pelle di Luc Tuymans a Palazzo Grassi, che trae il suo titolo proprio da lì.

Nella costruzione delle tue composizioni, nella definizione dei tuoi immaginari e delle tue fonti iconografiche che posto ha la storia dell’arte? 
La storia dell’arte, ma soprattutto l’Italia, nel suo primo Novecento, è per me fonte di grande interesse. Non cerco qualcosa di preciso o un modello, quanto piuttosto prendere fiducia e recuperare forza quando ne sento il bisogno.

Quando dipingi prevale la componente razionale o emotiva?
La parte emotiva moltiplica potenziando la parte razionale, con tutti i suoi rischi, ma non solo in pittura.

Marta Ravasi Melon 2018 olio su tela 40 x 31cm. Photo Cosimo Filippini Pittura lingua viva. Parola a Marta Ravasi

Marta Ravasi, Melon, 2018, olio su tela, 40 x 31cm. Photo Cosimo Filippini

Cosa significa fare pittura oggi?
Farla bene significa non approfittarne, ma farla e basta.

Vivi in Svizzera. Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea, anche alla luce della diversa prospettiva da cui puoi osservarla e analizzarla? 
Manco dall’Italia da quasi dieci anni, credo che la decisione di andare via (che al tempo ho vissuto come un generico “andarsene”, prima nel Regno Unito, poi in Svizzera) sia stata dettata soprattutto dal desiderio di capire cosa poteva succedere fuori essendo stata frustrata dall’Accademia italiana, ma ho sempre seguito la scena: penso che in Italia in questo momento ci siano diversi pittrici e pittori interessanti, la pittura sembra stia passando un buon momento, ma credo che l’esigenza vera sia riconoscerne l’unicità intrinseca, per storia, limiti e caratteristiche, senza però isolarla dal più grande contesto.

‒ Damiano Gullì

https://www.martaravasi.com/

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Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
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Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
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Pittura lingua viva #54 – Amedeo Polazzo
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Damiano Gullì

Damiano Gullì

Damiano Gullì (Fidenza, 1979) vive a Milano. I suoi ambiti di ricerca sono l’arte contemporanea e il design. Da aprile 2022 è curatore per l'Arte contemporanea e il Public Program di Triennale Milano. Dal 2020 è stato Head Curator del…

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