Valerio Nicolai è nato a Gorizia nel 1988. Vive e lavora a Milano. È diplomato all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Tra le mostre personali recenti: Amarena, Clima, Milano, 2019; Prospettiva di una matrioska, smART, Roma, 2017; Processo a porcospino, Clima, Milano, 2017; Trasformazione permanente di un mago in formica, Treti Galaxie, Torino, 2016. Tra le mostre collettive: Fondazione Malutta at Monitor, Monitor, Roma, 2017; VIVA ARTE VIVA, FuturDome, Milano, 2017; Gala, Nicolai, Kvas – N + G / K, A plus A Gallery, Venezia, 2016; A night out of town, Clima, Milano, 2016; Shit and die, Palazzo Cavour, Torino, 2015.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
Con i problemi adolescenziali.
Chi sono i maestri e gli artisti cui guardi?
Uno che riguardo spesso e a cui sono affezionato è Max Ernst, ma guardo cose a caso.
Ci sono tecniche o formati che prediligi?
No.

Ti muovi tra pittura scultura e installazione, come dialogano tra loro i differenti media? Li intendi come pittura espansa o hanno delle specificità e singolarità?
Più che pittura espansa parlerei di espansione narrativa.
Figurazione e astrazione: quando inizia una e finisce l’altra?
Non ho una mentalità astratta, ma sono attratto dall’astrazione. Per me la figurazione non finisce mai e l’astrazione non comincia mai. L’astrazione per me è un obiettivo irraggiungibile, ma rimane un obiettivo.
Affermi che il tuo lavoro si dipana come un rebus di immagini. È una modalità per affrontare e restituire la complessità del reale? Una risposta a una figurazione troppo elementare, diretta e immediata?
No, a volte è criptico, perché parte da concetti esistenziali, a volte uso una figura che indica simbolicamente un pensiero intimo. Questo fa in modo che il mio mondo riportato alla realtà sia a volte ingannevole, bugiardo, ma per quanto io tenti di nascondere una realtà, il risultato si svela sincero.
Come si è trasformato il tuo lavoro nel tempo?
Col tempo ho lavorato sempre di più con la testa.

La tua è una pittura lenta o veloce?
Dipende dall’idea, vorrei fosse sempre veloce, ma a volte è molto lenta.
Come scegli i tuoi soggetti?
Sono visioni.
Quale il rapporto tra la tua pittura, la fotografia e le immagini digitali?
Le uso distintamente.
Dipingi dal vero?
Qualche volta per noia.
Quale ruolo ha invece il disegno nella tua pratica?
È il mio migliore amico.
Hai affermato che l’atto di produzione dell’opera diventa per te una sorta di processo psicanalitico. Cosa intendi?
Non ricordo bene a cosa ti riferisci, però ci credo che l’ho detto. Molto probabilmente parlo della relazione che c’è tra la mia opera, il mondo esterno e il mio ruolo di intermediario.
Quindi porsi il problema di come essere, chi essere (perché perfino io non mi conosco). Questo cambia il lavoro, mette in atto una complessità di decisioni e scelte che hanno a che fare con la ricerca di se stessi, siamo falsi a volte nell’uscire allo scoperto. Questo fatto è traducibile in arte e mi affascina parecchio.

Il quotidiano e il meraviglioso convivono nelle tue opere. Da cosa deriva questa scelta di alternare registri e immaginari spesso tra loro contrastanti?
Forse perché trovo le idee sottomano.
Come è organizzato il tuo lavoro in studio?
In modo disordinato.
Quali sono le tue fonti di ispirazione? Letterarie, musicali, cinematografiche…
Sono prevalentemente i romanzi e prevalentemente quelli classici, perché sono immobili e nessuno li può capire totalmente, perché si modellano nella testa di chi li legge, per questo andrebbero, oltre che letti, riletti a seconda dello stato emotivo personale.
Come definiresti la tua pittura?
Giuro, non lo so!
Perché fare pittura oggi?
Perché no?
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Secondo me è ottima, va catalogata bene.
‒ Damiano Gullì