Pittura lingua viva. Parola a Oscar Giaconia

Viva, morta o X? 67esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.

Oscar Giaconia (Milano, 1978) vive a Bergamo. Tra le mostre personali recenti: Hoysteria, GAMeC ‒ Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo, 2019; Wunderkammer n.1 | OVERMAN, Thomas Brambilla Gallery, Bergamo, 2017; Green Room, BACO Arte Contemporanea ‒ Palazzo della Misericordia, Bergamo, 2016. Tra le mostre collettive: 19° Premio Cairo, Palazzo Reale, Milano, 2018; The Blank Decoder, Ospedale Papa Giovanni XXIII ‒Auditorium Parenzan, Bergamo, 2018; To bid or not to bid, Thomas Brambilla Gallery, Bergamo, 2017; Tuinfeest & Veilingen, Museum Dhondt-Dhaenens, Sint-Martens-Latem, 2017; Esposizione in tempo reale N.45, Sala alla Porta Sant’Agostino, Bergamo, 2017; happy ending, Frac Champagne-Ardenne, Reims, 2016.

Che ruolo ha il disegno nella tua pratica?  
È il rudimento primo, àncora paterna indispensabile all’animazione dei ruderi dell’immaginario che attraverso e di cui sono sia succube che suppliziante.
Il disegno, come la sinovia, designa il liquido che lubrifica le articolazioni di ogni cosa, perché è proprio “La Cosa” a pre-occuparmi, la sua cieca ostinazione e a restare. Compulsare quel che resta del disegno come cosa porta il disegno stesso a diventare ciò che non è, corpo, cosa tra le cose. “I miei disegni non sono dei disegni ma dei documenti” (A. Artaud)

Manomettere, tradurre, far insorgere, compromettere, alterare: usi spesso questi verbi in relazione al tuo fare… Mi piacerebbe approfondire questo approccio.
Sono tutti possibili ingiunzioni che alludono al rapporto disfunzionale, maldestro e auto sabotatore stabilito con il linguaggio pittorico. Quando Antonin Artaud scrisse che bisognerebbe scrivere l’intraducibile, utilizzava tutta una serie di termini apparentemente incongrui e inconcepibili (sondare, grattare, limare, cucire, scucire, mutilare la scrittura); in realtà sono tutti termini crudelmente lucidi, gelidamente a fuoco, sono come coltelli affilati pronti a foracchiare la pelle glabra e porosa della propria realtà: smarginandola, ecco il sopraggiungere e il fuoriuscire flatulento di una realtà aumentata, forsennata e infra sensoriale. Ecco che così la pittura finalmente non solo si sente o infra sente, ma si ascolta.

Oscar Giaconia, SEXUAL CLUMSINESS OF AMPHIBIOUS MACHINE, 2017, olio su carta lubrificata in teca di salpa acidata, cm 45x32. Photo Roberto Ferro. Collezione privata, Venezia. Courtesy OG Studio & Thomas Brambilla Gallery

Oscar Giaconia, SEXUAL CLUMSINESS OF AMPHIBIOUS MACHINE, 2017, olio su carta lubrificata in teca di salpa acidata, cm 45×32. Photo Roberto Ferro. Collezione privata, Venezia. Courtesy OG Studio & Thomas Brambilla Gallery

Realtà, finzione, rappresentazione sono tre poli intorno a cui ruota la tua ricerca, come dialogano tra loro? E la maschera, l’artificio, il trucco, il simulacro come si inseriscono in questo discorso? Tu stesso ti sei sottoposto a una sessione di trucco prostetico…  
L’auspicio è sempre quello di rimanere invischiato in un caso di incessante allodoxia: una eterodossia vissuta nell’illusione straniante di un’apparente ortodossia. Questo falso riconoscimento mette in crisi ogni cosa io faccia, qualsiasi materia e linguaggio risucchiati nel circuito della macchina pittorica. Ogni antropotecnica è minata dall’interno, come un elemento patogeno che prende il sopravvento poco alla volta, attraverso replicazioni analoghe a quelle de L’invasione degli ultracorpi: qualcosa in sostanza viene sostituito… La sostituzione diventa un pre-sentimento perturbante e angoscioso. È esattamente lo stesso presentimento che maturo nei confronti del linguaggio: incarna ciò che manca, anche se non è affatto immateriale. “È corpo sottile, ma è corpo” (J. Lacan)

Un tuo video si intitola Sexual Clumsiness. Quanto la componente sessuale/erotica ritorna nelle tue opere e perché? E come può essere “goffa”?  
Ci sono sempre forti sinergie tra la pulsione di sapere e la pulsione sessuale. Tuttavia sono più interessato a quella categoria che anticipa l’innato e che Jean Laplanche individua nel “sexuale”, una sessualità innestata e non riproduttiva. Nessuna allusione quindi all’Eros che presuppone un oggetto staccato e concatenato (il desiderio), ma a ciò che avviene ancor prima dell’istinto, la pulsione, il “sexuale” appunto. Questa precessione della pulsione sull’istinto la ritengo fatale circa il rapporto compulsivo con la pittura: il fantasma viene prima della sua funzione in immagine, l’esito precede l’intento, l’incidente la propria causa. La goffaggine è una torsione, uno spasmo, traduzione e tradimento dell’erezione maschile (associazione vertiginosa tra penna-pennello-matita-coltello), è una malefatta o atto maldestro inteso come misfatto risarcito poi dalla pittura sotto forma di stillicidio ortopedico. La pittura e il disegno sono i soli testimoni oculari di questa goffaggine originaria restaurata.

Nelle tue opere ti confronti con temi classici: ritratto, autoritratto, pittura di genere. Perché questa scelta? Omaggio o parodia?  
Penso non ci sia affatto un tema classico, se qualcosa trasudasse come tale penso rientrerebbe nell’orbita del falso riconoscimento di cui ho già parlato, alla stregua di un materiale che sembra un altro materiale, ma il classico non può essere una scelta, essendo agli antipodi di ciò che è attuale e contemporaneo. Di fatto me ne disinteresso. Altra questione è l’attenzione archetipica per il ritratto, inteso sempre come fenomeno di superficie, automatismo dell’auto-ritratto. Simulacro che include l’angolo dell’osservatore, dove il soggetto-artefice coincide con la sua trappola-artefatto.

Come il corpo, l’azione, la performance (anche se tu non ami che venga impiegato questo termine) si relazionano e vanno a completare il tuo lavoro pittorico?  
Sono entrambi forme di allenamento, un ritorno all’atleta (affettivo) con tutto il proprio equipaggiamento antropotecnico, basato sull’esercizio come forma di mobilità fisica ed ermeneutica. Ho sempre osservato con stupore la disciplina dei lottatori in palestra e la loro teologia muscolare. La performance me lo ricorda, intendendola come una sorta di arena-teatro primitivo. Ma l’atto performativo in sé non conta se non riciclato e differito dall’implacabile vaglio-maglio pittorico che lo attende. È esattamente l’inversione esperienziale di un’acrobazia non più esperita e consumata nel suo immediato svanire di atto o gesto atletico, ma come recupero di memoria sotto forma di fermo immagine, poi rappresa su un sudario. Del ricordo iniziale resta solo l’alone, una reminiscenza, uno stile (Felice Cimatti, Il taglio), una memoria non più soggettiva. La performatività è solo una possibilità tra le tante, è sullo stesso piano indifferenziato di un oggetto di scena, una ricostruzione scenografica, un documento fotografico, una maquette ecc. Quello che conta è pervertire, rovesciare, ridurre tutto a pura compulsione al godimento procedendo con la sicurezza di un sonnambulo.

Oscar Giaconia, AYE-AYE, 2018, ossidi, fiele di bue, caseina, grasso animale, soda caustica su carta lubrificata in teca di nylon, cm 126x80. Photo Antonio Maniscalco. Collezione privata, Milano. Courtesy OG Studio & Thomas Brambilla Gallery

Oscar Giaconia, AYE-AYE, 2018, ossidi, fiele di bue, caseina, grasso animale, soda caustica su carta lubrificata in teca di nylon, cm 126×80. Photo Antonio Maniscalco. Collezione privata, Milano. Courtesy OG Studio & Thomas Brambilla Gallery

Quanto contano per te i materiali? Sperimenti tantissimo, passando dal silicone alla vulcanite al nylon agli elastomeri alla salpa. E spesso lavori sul tema del residuo.
Mi illudo d’essere un biologo d’immagini. Premetto che l’illusione è assolutamente necessaria, sto al “mio” gioco, sto in ludus appunto. I materiali li assumo nella loro sostanza perché si possano incarnare nel flusso del mio pensiero visivo. Gli alchimisti erano soliti usare per i loro esperimenti il muschio che cresceva sui teschi sparsi sui campi di battaglia dopo una carneficina. Intendo dire nei campi di battaglia o da giochi pittorici, coltivo con lo stesso accanimento i residui prodotti dall’esercizio di certi incontri scontri fra sostanze e contro tecniche. “Il resto è la risorsa” (J.Lacan). Così la conoscenza s’immanentizza, coagula come uno strato d’olio, polimerizza, s’inspessisce, s’incarna. Questa attitudine scatologica porta a una riattivazione del rimosso, genera buchi, per accogliere finalmente i sinthomi delle materie attraversate. I sinthomi non sono sintomi, cioè segni significanti, ma s-oggetti non più straziati dallo sciamare ronzante del significante. “Accogliere il sinthomo, ecco finalmente un lembo di reale” (J. Lacan). Incorporare il proprio sinthomo vuol dire quindi assimilare il linguaggio che s’incarna, incarnare sé stessi, coincidere con l’immanenza singolare delle materie e delle controtecniche impiegate. Questa posizione non mira più a nessuna comprensione, ma all’essere compresi, assimilati e assorbiti nel proprio fare e disfare.

Chi sono i protagonisti delle tue opere? Chi è il Meister?
Nessuno è padrone in casa propria. Meister (Master-Maestro) è il deserto del nome proprio, è il timore strisciante del proprio oggetto interno. È anche una parodia delle origini fondato sul sorgere e insorgere (Sexual Clumsiness) di un padre onnivoro e totemico, ostinatamente trascendente, quindi simbolico e dispotico, che alla richiesta del figlio di indicargli la fonte lo fa morire di sete. La mia reazione al primato simbolico-paterno è istintivamente difensiva e protettiva, fosse per me corazzerei ogni cosa. Tuttavia non avendo nessun “io” da difendere elaboro questa tensione attraverso un processo di masterizzazione pittorica in divenire: una specie di duplicazione (controfigura) a partire da un Master padrone onnisciente. Questa pratica replicante porta alla disseminazione di quello che potrebbe sembrare uno sformato di personaggi: spettri, mostri, zombie, militari, monomani, vecchi comandanti, sentinelle, pastori.

Parli di immagine come parassita. Cosa intendi?  
Vedo nell’immagine i segni di una possibile attivazione e disattivazione pari alla disinibizione che accende e spegne l’eccitazione chimico sensoriale di alcuni parassiti. Nell’ultima ricognizione pittorica (Hoysteria) l’immagine isterica che trasudava in tutto l’immaginario schizofrenico “parlava” attraverso i suoi sintomi, ma appunto parlava. Quel che sto ricercando è invece un’immagine che non ha nulla da dire, un’immagine sinthomo non più ostaggio del linguaggio. L’immagine così, non parlando più, incomincia a girare a vuoto. Tra parassita e immagine c’è un rapporto di mutuo trapianto, un innestarsi indebito nel corpo altrui. Sintesi di questa pratica d’innesto e gemmazione la ritrovo nella serie The Kitbascher: figure sorte dagli avanzi dell’ultima (ma sarebbe meglio dire penultima) sessione di trucco prostetico in GAMeC. Corpi che si montano come i pezzi sfusi di scatole di gioco differenti, creature come bricouleur di sé stesse, quasi fossero organismi sopravvissuti a chissà quale apocalisse.

Parli spesso di “uccidere la pittura”. Perché allora fare pittura oggi?
Insomma… l’ideale sarebbe farla finita con il simbolico”. Impugno a piene mani questa lettura lacaniana. Faccio pittura per sbarazzarmi della pittura (controtecnica), utilizzo il linguaggio per disfarmene, per sfinirlo, per togliergli aria, per scavarlo dall’interno come un tarlo. Tuttavia cerco di disfarmene partendo per assurdo proprio dal suo utilizzo eccessivo ed efferato. La sfida paradossale, per avvicinarsi nei dintorni di questo delitto, sta nel rintracciare nell’animale linguistico, l’artefice parlessere, quella parte aliena che sfugge al linguaggio, ricerca di un “analfabetismo nel corpo che parla”. Il corrispettivo in pittura potrebbe essere qualcosa di analogo a un recupero di cecità nell’occhio di chi vede, o crede di vedere, un’invisibilità incarnata. Quella che chiamo mistica dell’artificio o passaggio dalla mistica alla mestica ha come piano di consistenza primario il corpo, da sempre pietanza indigesta al linguaggio. Dal corpo possono partire concatenazioni appena percettibili, come una rete di vasi sanguigni sotto pelle. Perché fare pittura oggi? Non c’è risposta, la pittura genera solo domande e non mette al sicuro nessuno. Se lo sapessi non la praticherei.

Damiano Gullì

LE PUNTATE PRECEDENTI

Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
Pittura lingua viva#12 ‒ Marta Mancini
Pittura lingua viva #13 ‒ Francesco Lauretta
Pittura lingua viva #14 ‒ Gianluca Di Pasquale
Pittura lingua viva #15 ‒ Beatrice Meoni
Pittura lingua viva #16 ‒ Marta Sforni
Pittura lingua viva #17 ‒ Romina Bassu
Pittura lingua viva #18 ‒ Giulio Frigo
Pittura lingua viva #19 ‒ Vera Portatadino
Pittura lingua viva #20 ‒ Guglielmo Castelli
Pittura lingua viva #21 ‒ Riccardo Baruzzi
Pittura lingua viva #22 ‒ Gianni Politi
Pittura lingua viva #23 ‒ Sofia Silva
Pittura lingua viva #24 ‒ Thomas Berra
Pittura lingua viva #25 ‒ Giulio Saverio Rossi
Pittura lingua viva #26 ‒ Alessandro Scarabello
Pittura lingua viva #27 ‒ Marco Bongiorni
Pittura lingua viva #28 ‒ Pesce Kethe
Pittura lingua viva #29 ‒ Manuele Cerutti
Pittura lingua viva #30 ‒ Jacopo Casadei
Pittura lingua viva #31 ‒ Gianluca Capozzi
Pittura lingua viva #32 ‒ Alessandra Mancini
Pittura lingua viva #33 ‒ Rudy Cremonini
Pittura lingua viva #34 ‒ Nazzarena Poli Maramotti
Pittura lingua viva #35 – Vincenzo Ferrara
Pittura lingua viva #36 – Luca Bertolo
Pittura lingua viva #37 – Alice Visentin
Pittura lingua viva #38 – Thomas Braida
Pittura lingua viva #39 – Andrea Carpita
Pittura lingua viva #40 – Valerio Nicolai
Pittura lingua viva #41 – Maurizio Bongiovanni
Pittura lingua viva #42 – Elisa Filomena
Pittura lingua viva #43 – Marta Spagnoli
Pittura lingua viva #44 – Lorenzo Di Lucido
Pittura lingua viva #45 – Davide Serpetti
Pittura lingua viva #46 – Michele Bubacco
Pittura lingua viva #47 – Alessandro Fogo
Pittura lingua viva #48 – Enrico Tealdi
Pittura lingua viva #49 – Speciale OPENWORK
Pittura lingua viva #50 – Bea Bonafini
Pittura lingua viva #51 – Giuseppe Adamo
Pittura lingua viva #52 – Speciale OPENWORK (II)
Pittura lingua viva #53 ‒ Chrysanthos Christodoulou 
Pittura lingua viva #54 – Amedeo Polazzo
Pittura lingua viva #55 – Ettore Pinelli
Pittura lingua viva #56 – Stanislao Di Giugno
Pittura lingua viva #57 – Andrea Barzaghi
Pittura lingua viva #58 – Francesco De Grandi
Pittura lingua viva #59 – Enne Boi
Pittura lingua viva #60 – Alessandro Giannì
Pittura lingua viva #61‒ Elena Ricci
Pittura lingua viva #62 – Marta Ravasi
Pittura lingua viva #63 – Maddalena Tesser
Pittura lingua viva #64 – Luigi Presicce
Pittura lingua viva #65 – Alessandro Sarra
Pittura lingua viva #66 – Fabio Marullo

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Damiano Gullì

Damiano Gullì

Damiano Gullì (Fidenza, 1979) vive a Milano. I suoi ambiti di ricerca sono l’arte contemporanea e il design. Da aprile 2022 è curatore per l'Arte contemporanea e il Public Program di Triennale Milano. Dal 2020 è stato Head Curator del…

Scopri di più