Pittura lingua viva. Parola a Giulio Frigo

Viva, morta o X? Diciottesimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.

Giulio Frigo (Arzignano, 1984) vive e lavora a Milano. La sua formazione artistica avviene prima all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e successivamente all’UCLA di Los Angeles. Tra le mostre recenti, la personale 360 780 nm, Francesca Minini, Milano, 2015, e le collettive Imagine, Brand New Gallery, Milano, 2016; Premio Maretti Cuba 2015, Centro de Desarrollo de las Artes Visuales, La Habana, Cuba, 2015; Le stanze d’Aragona, cap. III, Villino Favaloro, Palermo, 2015; BACO, Open Mia, Palazzo della Misericordia, Bergamo, 2015; Imago Mundi. Mappa dell’arte nuova, Benetton Collection, Fondazione Cini, Venezia, 2015; Premio Cairo, Palazzo della Permanente, Milano, 2014; The Workbench, Quinta Essentia, Milano, 2014; Studiolo, The Best of Italian Youth, Museo San Francesco, Repubblica di San Marino, 2014; Visioni per un inventario, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, 2014; Le ragioni della pittura. Esiti e prospettive di un medium, Palazzo de Sanctis, Castelbasso, 2013; Moroso Award for Contemporary Art, Venezia, 2013; Museo illuminato, Museo Revoltella, Trieste, 2013; Fuoriclasse, GAM ‒ Galleria d’Arte Moderna, Milano, 2012; D’après Giorgio, Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, Roma, 2012.

Come ti sei avvicinato alla pittura?
Tramite la passione istintiva per il disegno: il piacere di disegnare e rappresentare le cose che mi interessavano. Il percorso che mi ha portato alla pittura è passato dal writing, di cui mi interessavano in particolare le figure o i cosiddetti “puppets”, alla passione per alcuni fumettisti come Greg Capullo, Akira Toriyama, Kentaro Miura o Tiziano Sclavi. Ho seguito questo interesse per il disegno della figura arrivando a scoprire i disegni di Michelangelo, Rubens, Seurat. Un interesse che mi ha portato ad appassionarmi alla storia dell’arte più classica fino alla moderna e contemporanea. La pittura “pensa” in un modo che mi è molto affine, per analogie, metafore, sintesi, associazioni improbabili, ritmi, pattern e ovviamente colore.

Giulio Frigo, Anamorfosi ∞ (produttori di mondi), 2018. Photo Sebastiano Pellion

Giulio Frigo, Anamorfosi ∞ (produttori di mondi), 2018. Photo Sebastiano Pellion

Hai già citato alcune figure importanti per la tua formazione. A quali altri artisti, più o meno vicini, guardi?
In passato senza dubbio l’artista che più mi ha influenzato è stato De Dominicis, poi Balthus e anche David Lynch. Ora in realtà guardo molto di più ad altri campi per trovare ispirazione: all’architettura, alla biologia oppure ai modelli matematici scientifici utili a descrivere la complessità. A seconda della ricerca a cui sto lavorando, un artista può tornare a essere attualissimo al mio sguardo. Sto sperimentando vari modi per articolare la topologia della rappresentazione e la recente mostra su Bonalumi a Palazzo Reale è stata utilissima per capire quanto flessibile e inesplorata sia la pelle della pittura. Fin dove puoi tendere quella pelle e fermarsi quell’attimo prima che si possa parlare di scultura. Guardavo queste estroflessioni e pensavo che emanavano la stessa misteriosa bellezza che mi ispirano alcune superfici algebriche, le ultime strutture fluide di Sol LeWitt o alcune intuizioni formali di Kapoor e pensavo che c’è una continuità profonda tra queste superfici e i solidi platonici che tanto hanno influenzato l’essenza della pittura italiana. Più di recente mi interessano i diagrammi basati su algoritmi che rappresentano la complessità, che io considero uno stile figurativo minimalista, che spoglia la figura di tutto se non della propria presenza, intesa come semplice unità puntuale. Elemento semplice coinvolto in coreografie e movimenti che lo comprendono e insieme lo superano. Per questo lo stile pittorico puntinista e atomizzato di Tancredi Parmeggiani, oppure il Ritratto di un collezionista visto da 10 km di distanza di De Dominicis o, ancora, le superfici di colore e luce di Piero Dorazio tornano a interessarmi in maniera nuova come strumenti utili ed efficaci per guardare al presente.

In uno dei tuoi primi lavori Still (in) Life del 2007 ‒ una sorta di memento mori ‒ emerge una certa attitudine barocca che ritorna in lavori recenti in cui sperimenti l’anamorfosi… Come si è sviluppato il tuo percorso? Ti senti un po’ barocco?
Senza dubbio cogli un tratto profondo di ciò che sto cercando di fare. Nelle mie opere Anamorfosi ∞, dipinte su superfici a curvatura continua, ribalto il meccanismo classico dell’anamorfosi. Generalmente l’anamorfosi appare come una figura illeggibile ed enigmatica, a meno che tu non ti trovi nel punto predisposto dall’artista, dal quale le deformazioni cessano di apparire tali e si ricompongono “risolvendosi” in un’immagine leggibile e coerente. Un po’ come succede ancora oggi nell’opera di Felice Varini. Nel mio caso, invece, non esistono un punto di vista privilegiato, da cui il “trucco” possa venire svelato, o una via di uscita dall’enigma.

Spiegati meglio.
Ogni passo dello spettatore deforma letteralmente l’apparenza delle figure e l’incidenza della luce sul colore senza soluzione di continuità. Due spettatori in due punti differenti guardano letteralmente a due dipinti diversi. Un’anamorfosi infinita, per l’appunto. Nella sua essenza questo dispositivo è senza alcun dubbio barocco. Non a caso ci è capitato di abitare in uno dei momenti storici più complessi sotto ogni punto di vista, e “complesso”, come Deleuze ha saputo dire in maniera impareggiabile nel suo saggio sul barocco, non è ciò che è difficile, ma ciò che è piegato in molti modi. Mi piace pensare che la superficie della mia pittura stia cominciando a ribollire dall’interno e sia vicina a un punto di singolarità che la porterà a un cambio di stato. Da solido a liquido per arrivare a gassoso. Liberare la pittura dal “quadro” e dalla bidimensionalità euclidea, che, anche se il è più abituale, è solo uno dei casi possibili in cui può giacere una superficie. Pensa alla complessità topologica su cui si dispiegano le figure che abitano l’abside o le cupole di molte cattedrali.

Giulio Frigo, Fides oculata (five objects you would probably never handle), 2018. Photo Sebastiano Pellion

Giulio Frigo, Fides oculata (five objects you would probably never handle), 2018. Photo Sebastiano Pellion

Nei titoli delle tue opere ricorrono parole quali stanza, soglia, interno: è evidente l’attenzione alla spazialità, all’interazione dell’uomo con l’ambiente in cui si muove e agisce. E anche a una precisa costruzione ‒ quasi architettonica, direi, hai appena fatto riferimento proprio ad absidi e cupole ‒ e una teatralizzazione della scena, di pose e gesti.
Penso che questa attenzione alla spazialità sia dovuta alla mia convinzione che la problematica più interessante inerente alla pittura sia la costruzione di uno “spazio pittorico” inatteso. Lo dice benissimo in molti suoi scritti Frank Stella, che ha fatto di questo il tema centrale della sua ricerca e di tantissime geniali soluzioni formali. Specialmente le più recenti. O anche David Hockney, quando sintetizza il problema della pittura nel rendere una percezione tridimensionale in una superficie bidimensionale. In questo senso è molto bella la sua definizione di albero: “In primavera una trappola per la luce e in inverno una trappola per lo spazio”.

Il mistero, il grottesco… Cosa sono per te?
Due ottime categorie del pensiero. Misteriosa è la condizione oggettiva in cui siamo immersi e che noi stessi siamo. A essere grottesca, invece, è molto spesso la realtà.

Nelle tue opere spesso ritrai filosofi, prestigiatori, architetti, pensatori e poeti… Come scegli tali soggetti?
Penso sia una forma di omaggio. È una cosa che capita con naturalezza, lasciando andare a briglia sciolta la mia curiosità. A volte nelle mie ricerche di immagini o nelle mie letture mi imbatto in pensatori che mi affascinano per il loro ingegno e che mi suscitano un’ammirazione molto genuina. Se poi capita di trovare foto interessanti che li ritraggono, allora mi viene naturale integrare la loro figura nel mio personale repertorio iconografico. Mi è capitato più di recente con Harold Coxeter, che è stato un matematico che ha passato la vita a contemplare nella propria mente solidi geometrici a n dimensioni con piani di simmetria complicatissimi, invisibili agli occhi di una persona come me.
Un’occupazione apparentemente astratta e inutile che invece ha avuto una ricaduta sulla realtà molto profonda. In uno dei miei dipinti appare nelle sembianze di un giovane barista. Il prossimo penso sarà il fisico Yves Pomeau, esperto di stati turbolenti dei fluidi. Una sua foto in cui tiene in mano un bicchiere d’acqua continua a ronzarmi nella testa.

Giulio Frigo, Hairy Pixel (RGB flagellate), 2018. Photo Sebastiano Pellion

Giulio Frigo, Hairy Pixel (RGB flagellate), 2018. Photo Sebastiano Pellion

E la performance? Come interagisce con la pittura? Sei inoltre interessato all’aspetto fenomenologico del colore…
La pittura è performance. Il colore non è uno stato inerte della materia, quanto una vera e propria radiazione dinamica della luce. Le anamorfosi infinite sono un’ipotesi con cui esplorare formalmente questa intuizione modificando l’angolo di incidenza della luce sul piano curvato del dipinto rispetto alla posizione dello sguardo dello spettatore. Sottoporre il dipinto a una luce dinamica, o colorata, oppure sagomata, e lavorare su vari parametri come la resa cromatica, la temperatura luminosa o il ritmo stroboscopico usato recentemente per la serie Hairy Pixel a Liste sono altri modi che ho esplorato per esplicitare questa evidenza. Ma un qualunque quadro, in una qualunque stanza, ogni giorno nell’arco di una giornata, a guardarlo con attenzione, cambia aspetto infinite volte.

Cosa rappresentano per te tecnica e materiali?
Mezzi per arrivare a un fine. Richiedono molta attenzione e ricerca per raggiungere il risultato sperato, l’opacità desiderata o altri tipi di valori plastici. Le mie ultime opere curve sono passate sotto molte sperimentazioni che però non mi avevano ancora soddisfatto.
Ho fatto superfici curve in terracotta, in gesso, in MDF fresato, in vetroresina fino ad approdare a un tipo di cuoio di vacchetta trattato al vegetale che per varie ragioni tattili, simboliche ed estetiche si è rivelato la scelta ottimale.

E la cornice che ruolo svolge? Penso per esempio alla già citata serie Hairy Pixel del 2018…
La cornice è un dispositivo che alcune volte non è necessario. Quando sospendo un dipinto, non solo la cornice diventa superflua, ma anche la frontalità dello sguardo implicita alla forma quadro viene messa in discussione, anche quando curvo la superficie oltre a un certo grado non contenibile da una cornice. Nel caso della serie Hairy Pixel farei un discorso a parte. Il pelo è nato un po’ come un gioco, un accostamento surreale e stridente tra organico e inorganico, tra matematica e materia, e un po’ per una ragione più fondata. Ho pensato all’iconosfera in cui siamo avviluppati come a un secondo paesaggio invisibile che abita lo spettro elettromagnetico che si estende oltre il visibile.  Ma che in ogni modo informa e trasforma il paesaggio visibile ai nostri sensi. Essa emerge nel visibile affiorando sulla superficie lucida dei nostri schermi, solitamente nel formato di uno smartphone, di un laptop o di un televisore e lo fa con un tipo di immagini prodotte dal “pennello elettronico” che hanno delle caratteristiche molto singolari.

Giulio Frigo, Drunk Pixel, 2018. Photo Agostino Osio

Giulio Frigo, Drunk Pixel, 2018. Photo Agostino Osio

Ovvero?
Per prima cosa illuminano l’ambiente anziché ricevere la luce dall’esterno. Sfarfallano a un ritmo talmente veloce da apparire invisibile. Sono ipersature e iperdefinite oltre un ragionevole “realismo”. Quelle immagini sono come la punta spettacolare di un iceberg alfanumerico di una complessità e articolazione tali da lasciare senza parole. Abitiamo e siamo abitati dalle immagini, che trascorrono attraverso i nostri corpi. Generano comportamenti, influenzano gusti, orientano scelte. Disgustano, commuovono. Atomi e bit si impastano nei nostri corpi, informano la nostra sensibilità, prolificano e viaggiano nello spazio e nel tempo sotto forma di stringhe di codice ubiquo.

Quale allora la ragione per “sfilacciare” la cornice fino al pelo?
Flagelli e ciglia sono il modo escogitato dalla vita per rendere mobili le unità più semplici della vita organica. Anche se suona un po’ paradossale, io considero quelle opere dipinti di figure, visto che la cellula è un po’ il modo in cui la vita comincia a differenziarsi e individuarsi e si stabilisce quella prima soglia tra un dentro e un fuori, tra un chiuso e un aperto, tra l’organico e l’inorganico che stanno in un rapporto simbiotico. Se classicamente la quintessenza della figurazione era il nudo, nel mio modo di vedere, oggi, tale quintessenza è la cellula.

La figurazione, appunto… Perché la scelta di questo linguaggio?
Per me la figurazione è un istinto e insieme una sfida. Come rendere la pittura figurativa ancora una volta interessante senza scadere in facili cliché conservatori?

Cosa significa quindi fare pittura oggi?
Dipingere per me significa pensare per immagini. Produrre un dipinto significa lasciare una testimonianza di una sensibilità singolare, la traccia dell’impatto che l’esperienza del “mondo” può avere su un individuo. Qualcosa di irriducibile a qualsiasi stile di rappresentazione “statistico”.

‒ Damiano Gullì

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Damiano Gullì

Damiano Gullì

Damiano Gullì (Fidenza, 1979) vive a Milano. I suoi ambiti di ricerca sono l’arte contemporanea e il design. Da aprile 2022 è curatore per l'Arte contemporanea e il Public Program di Triennale Milano. Dal 2020 è stato Head Curator del…

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