Pittura lingua viva. Parola a Luca Bertolo

Viva, morta o X? In occasione del 36esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea, l’intervista con Luca Bertolo diventa il punto di partenza per una analisi e riflessione più ampia sulla rubrica stessa.

Luca Bertolo ha vissuto a Milano, San Paolo, Londra, Berlino e Vienna. Dal 2015 insegna pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Tra le mostre in istituzioni pubbliche e private si segnalano: Luca Bertolo, Mart, Rovereto, 2018; Se non qui dove, MAN, Nuoro, 2017; Oltreprima, Fondazione del Monte, Bologna, 2017; Le Belle Parole, SpazioA, Pistoia, 2017; Everybody Is Always Right, Arcade, Londra, 2017; If Anything, Marc Foxx, Los Angeles, 2016; Recto Verso, Fondazione Prada, Milano, 2015; Il metodo. Ci interessa il metodo, GAM, Torino, 2014; Figura 2: natura morta, GNAM, Roma, 2013; La figurazione inevitabile, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato, 2013; A Painting Cycle, Nomas Foundation, Roma, 2012.
I suoi testi sono apparsi su cataloghi monografici e riviste, tra cui Flash Art, Il Giornale dell’Arte, Exibart, Artribune, Warburghiana, doppiozero, Le parole e le cose, ATP Diary.

Iniziamo subito entrando nel vivo della questione: cosa pensi di questa rubrica?
Ho scoperto questa rubrica un paio di mesi fa e pian piano ho letto le prime trenta interviste. Ho sentito qualche amico lamentarsi del fatto che molte domande si ripetono identiche al variare degli artisti. Eppure credo che sia questa una delle potenzialità maggiori di un progetto come questo: è proprio accumulando diverse risposte alle stesse domande che si costituisce un repertorio che rende confrontabili, almeno parzialmente, assunti, gusti, genealogie. In arte contano le singolarità, e le singolarità (vere) sono per definizione incommensurabili tra loro. È vero. Ma è comunque interessante sapere quali libri leggevano i futuristi, quanti professori di accademia presero la tessera del partito fascista, con quale frequenza Picasso abbia ossessionato la generazione di Guttuso, o quanti quadri (e a che prezzo) i cinque pittori della Transavanguardia abbiano venduto entro i trentacinque anni di età. Tra l’altro, l’idea di rivolgere le stesse domande a più artisti è un’idea dei surrealisti e non dei sociologi. Mi pare che pochi tra gli intervistati si sia accorto/a di questa potenzialità.

Paul Goodwin, Ship’s feet (rudderless ship of fools), 2008, acrilico e olio su lino, cm 220×200

Paul Goodwin, Ship’s feet (rudderless ship of fools), 2008, acrilico e olio su lino, cm 220×200

L’immagine che tu usi del repertorio mi piace molto, e devo dire che l’obiettivo è proprio quello di estendere questa mappatura della scena della pittura italiana contemporanea il più possibile, in maniera rizomatica… Quello che qualcuno vede come debolezza ‒ la reiterazione di alcune domande ‒ lo rivendico come una scelta consapevole. Come anche tu osservi, è proprio questa varietà nella continuità a costituire, a mio avviso, la vera ricchezza nella polifonia. Ecco, quello che mi piacerebbe è che tale polifonia portasse a uno scambio fecondo, a un dialogo costruttivo, anche a un dibattito acceso… Mettendo sempre l’artista al centro. La formula dell’intervista quali lacune può avere secondo te? Quali invece le sue potenzialità?
Spesso, leggendo le interviste ‒ non dico queste ‒, mi annoio. Perché? In generale, mi annoio quando vi percepisco in trasparenza una struttura-cliché che rende il dialogo piuttosto una partitura: l’intervistatore chiede quello che ci si aspetta che chieda e l’artista risponde comme il faut. Si gira in tondo nello stesso orizzonte d’attesa. È raro che un artista parli delle proprie paure, di una malattia, di un disagio, di un’umiliazione subita nel rapporto con un gallerista, di un suo innamoramento. Lo standard ci vuole omertosi, ottimisti, ragionevoli, razionali e possibilmente simpatici. Una voce anonima ma onnipresente bisbiglia: “Siete tanti, troppi, tendenzialmente interscambiabili; cari artisti, siete deboli: eseguite la vostra parte e sperate in bene!”. Un artista che fa il pazzerello o, se è un po’ conosciuto, l’antipatico, non cambia lo standard dello spettacolo: piccole variazioni sul tema sono previste dal copione. In un’intervista scritta o registrata spero sempre che chi parla scopra in quell’attimo quel che ha da dire, senza avere il tempo per valutarne l’efficacia sociale, comunicativa, professionale. Quando questo capita, mi emoziono. L’unico compito che ha un artista è di forzare i limiti dell’orizzonte d’attesa: non glielo chiede il board di Manifesta, è l’ethos del suo strano lavoro a esigerlo. Ampliare l’orizzonte d’attesa non significa necessariamente vomitare in una galleria o impiccare fantocci a un albero; meno eclatante, ma non meno intenso, può risultare un carminio in luogo di un cobalto.

Un carminio in luogo di un cobalto… Mi ritrovo in quello che dici, idealmente lo ricollego a quando scrivo che una natura morta può essere politica. Con questa serie di interviste cerco in primis di mettere a proprio agio, talvolta anche facendo un passo indietro, i miei interlocutori per permettere loro di esprimersi in piena libertà, e con sincerità. Così facendo sono emerse anche risposte sulle paure, i sogni, la solitudine, l’erotismo. Quello che in generale registro come dato comune è che c’è molta voglia di raccontare, di raccontarsi, c’è una passione sconfinata nei confronti del mezzo pittorico, c’è molta consapevolezza (anche un certo orgoglio, in senso buono), c’è talvolta la frustrazione della mancanza di una vera critica o di qualcuno che legga e inquadri correttamente il fenomeno, anche a fronte di un corretto inserimento nel contesto internazionale. E c’è anche la percezione della mancanza, spesso, di interesse da parte di collezionisti e galleristi, a volte più attratti dalle chimere dell’“esotismo”. Tu, da lettore, e soprattutto da pittore, che idea ti sei fatto?
Ho notato una specie di reticenza da parte degli intervistati riguardo ai propri colleghi, e la mancanza più vistosa riguarda proprio i pittori italiani contemporanei. Per quantificare questa mia sensazione ho organizzato le risposte in un piccolo quadro sinottico. Nelle prime 30 interviste vengono nominati 209 artisti (alcuni sono nominati più volte quindi il numero effettivo di artisti è un po’ inferiore), di cui 80 (38%) sono italiani. Tra questi, 26, cioè il 32% degli italiani (12% del totale artisti) sono vissuti prima del XX secolo; 35, cioè il 44% degli italiani (17% del totale artisti), collocabili nel XX secolo ma già passati a miglior vita; 19, infine, cioè il 24% degli italiani (9% del totale), sono artisti italiani viventi, di cui 15 pittori (19% degli italiani, 7 % del totale). Riassumendo e facendo una media, a domanda precisa ‒ “Quali sono i maestri e gli artisti cui guardi?” ‒ solo uno ogni due intervistati cita un pittore italiano vivente (Andrea Carpita, del 1988, il più giovane ‒ Enzo Cucchi, del 1949, il più vecchio). Ma il vero scoop è questo: quei risicati 15 nomi sono citati da soli 5 (17%) degli intervistati. L’83% non ne cita nemmeno uno. Anche lasciando da parte i casi estremi, al limite del grottesco (“Non ho mai guardato nessuno o tratto ispirazione” ‒ Concialdi), il dato è un po’ sconcertante comunque lo si voglia interpretare.

Enzo Cucchi, Il Vesuvio, 1994, matita e carboncino su carta, cm 23x30,5

Enzo Cucchi, Il Vesuvio, 1994, matita e carboncino su carta, cm 23×30,5

Spiegati meglio.
Su un campione (piccolo, ma non insignificante) di trenta pittori italiani contemporanei giovani e mid-career (20% nati negli Anni Sessanta; 23% negli Anni Settanta; 57% negli Anni Ottanta e primi Novanta), la stragrande maggioranza 1. dichiara implicitamente che l’Italia negli ultimi settant’anni non ha prodotto pittori di alcun rilievo e/oppure 2. considera che in un’intervista come questa non valga la pena di nominare colleghi italiani che rispetta o trova interessanti. Curiosamente, alla domanda finale ‒ “E cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?” ‒ le stesse persone rispondono quasi all’unanimità di considerarla “positivamente”, “in gran fermento”, con “tanti talenti” e “buoni artisti che nulla hanno da invidiare ai colleghi stranieri” se non addirittura una pittura che rispetto a quella oltreconfine ha “qualcosa in più da dire”.

Le tue osservazioni e la tua puntuale analisi sono molto interessanti e aprono ovviamente a diverse riflessioni. Credo che la prevalenza di “maestri” citati che in buona parte sono già passati a miglior vita possa essere naturale e fisiologica. Senza dubbio la distanza temporale ne aumenta peso e autorevolezza. Non so invece interpretare correttamente il fatto che non vengano citati colleghi contemporanei. Quello che constato off record o da altri momenti di scambio è che ci siano reti e relazioni ben strutturate tra artisti che lavorano in sinergia, e più o meno da vicino, con il fine ultimo di portare avanti al meglio un discorso serio e coerente sulla pittura attraverso workshop, mostre, lecture, pubblicazioni. Tutti conoscono, analizzano, osservano, commentano il lavoro degli altri. So che questa stessa rubrica è oggetto di attenzione e dialogo. Magari, banalmente, non ci si sbilancia sui nomi non tanto per non citarli, ma per paura di non citarli tutti o tutti nel modo giusto. Poi faccio anche io ammenda e autoanalisi (questo dialogo con te aiuta molto): magari le mie domande non sono poste nella maniera corretta. By the way, tu a che artisti guardi?
A scanso di equivoci, non sto attribuendo all’ignoranza gli scarsissimi riferimenti a pittori italiani contemporanei in queste interviste. Al contrario, gli artisti delle ultime generazioni, almeno quelli ambiziosi, sanno tutto di tutti (networking è il nuovo Verbo). Se c’è un ignorante tra noi, quello sono io. Un bel po’ di tempo fa, dopo alcune settimane in ospedale, mollai la tesi in logica matematica e la fidanzata e me ne andai a zonzo per il Nord Europa. Per la prima volta in vita mia volevo fare l’artista, pur non sapendo esattamente cosa ciò volesse dire. Avevo ventitré anni. Finii a Londra, in un sudicio monolocale di Camden Town. In camera mia appesi una grande tela bianca. Quando non lavavo i piatti nella mensa di una grande agenzia di pubblicità vicino a Hyde Park, disegnavo ossessivamente al British Museum. Non conoscevo quasi nessuno, non avevo contatti.  Non sapevo quali fossero le gallerie cool. Un giorno una mia amica, credo per compassione, mi volle presentare un ragazzo della nostra età che studiava pittura al Chelsea College. “Quali sono i tuoi pittori preferiti?”, mi chiese pochi secondi dopo esserci stretti la mano. All’epoca ero ossessionato da Francis Bacon, che era quanto di più contemporaneo conoscessi (morì proprio nel 1992, a ottantatré anni). Risposi: “Piero della Francesca, Picasso e Giacometti”. Il tipo mi guardò con i suoi occhietti a fessura: “I miei preferiti sono Philip Guston e Francesco Clemente”. Annuii guardando un punto imprecisato di Russel Square. Proposi di andarci a bere una birra. Ma il giovane pittore non si muoveva. Fissandomi con i suoi occhietti British upper class riprese come se non avessi detto niente: “Tu cosa ne pensi di questi due artisti?”. Sapevo di umiliarmi, ma non avevo scelta: “Temo di non conoscerli così bene…”. “Beh”, disse a quel punto il giovane pittore (chissà come si chiamava, chissà se oggi è un artista famoso o se dirige un’agenzia immobiliare), sorridendomi con bonaria superiorità, “in questo caso credo che non avremmo molto da dirci”. Ci salutò e si avviò verso la stazione della metropolitana. Questo, per dire dell’ignoranza pura e semplice…

Pesce Khete. Horst der Künstler. Installation view at GAFF, Milano 2013. Photo Filippo Armellin

Pesce Khete. Horst der Künstler. Installation view at GAFF, Milano 2013. Photo Filippo Armellin

Da lì il tuo percorso come è proseguito?
Tornato in Italia, cominciai a conoscere il lavoro dei pittori italiani più recenti di Sironi, Morandi o Gastone Novelli. Il giro di boa della Transavanguardia e della cosiddetta nuova scuola romana (Nunzio, Ceccobelli & C.) non mi esaltava, con l’eccezione di Enzo Cucchi e di alcune cose di Pizzi Cannella. Da lì in giù faticavo a trovare cose appassionanti, per usare un eufemismo. Mi piaceva la serie delle Interviste al Papa di Marco Cingolani (che più tardi scoprii essere tra i pittori più colti e appassionati) o i quadri con i pesi di Massimo Kaufmann. Allo studio Cannaviello, dove feci la mia prima mostra nel 1997, Pierluigi Pusole e Daniele Galliano erano le star: vendevano così bene che Enzo dava loro uno stipendio mensile. Nonostante fossi un po’ più giovane di lui, mi sentivo un vecchietto (a ventott’anni) a rimuginare cervelloticamente per settimane su una singola tela, senza prospettive di vendita, mentre Pierluigi sfornava un bel quadro in bianco e nero ogni mezz’ora e suonava in una rock band. La verità è che mi sentivo solo: la stragrande maggioranza dei pittori della mia età producevano variazioni sul fotorealismo, quanto di più lontano dai miei interessi. Sentivo che c’era bisogno di rifondare la pittura, figuriamoci. In un delirio di onnipotenza credevo di poter contribuire a rimodellarne lo statuto. Era evidente che all’inizio del Duemila l’assoluta maggioranza dei giovani artisti davvero bravi non dipingevano, da Eva Marisaldi a Diego Perrone. Poi un bel giorno visitai una mostra di Alessandro Pessoli e ne fui folgorato. Avevo finalmente trovato un fratello maggiore da ammirare. Navigavamo in direzioni molto diverse, ma chi se ne frega. Non ho mai smesso di apprezzare il suo talento straordinario. Anche Luca Pancrazzi è stato, per altri motivi, una figura importante. Maria Morganti e Lorenza Boisi, diversissime tra loro, ma entrambe ottime pittrici, intelligenti e colte, hanno dedicato energia indefessa e passione in progetti che hanno coinvolto altri colleghi (tra questi cito solo gli incontri veneziani di Maria, in cui sono passati più di cento artisti, e MARS di Lorenza), cosa più unica che rara specie in quegli anni. Ovviamente, per ragioni di spazio, non posso citare tutti i pittori italiani che apprezzo… ma i quadri e i disegni di Pietro Roccasalva sono davvero notevoli. Tra l’altro, Pessoli e Roccasalva sono gli unici pittori italiani della loro generazione ad aver ricevuto un ottimo riconoscimento in Italia all’estero (Biennale di Venezia, importanti gallerie in USA, UK, Belgio ecc), e dunque, tornando alle interviste, mi pare quantomeno curioso che solo due degli intervistati li nominino. Tra quei famosi 15 nomi citati, quello di Riccardo Baruzzi detiene il massimo di ricorrenze (3) e ne sono felice. Tuttavia queste poche convergenze mi paiono insufficienti per un “canone” condiviso, necessario perché si (ri)costituisca una comunità pittorica. Poiché di questo si tratta.

E arriviamo, infine, alla fatidica domanda: cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
È vero che rispetto ad altri Paesi non possiamo vantare un panorama pittorico eccezionale (per anni ho detto che il miglior pittore italiano vivente è un inglese, Paul Goodwin), ma condivido l’ottimismo dei miei colleghi. Sì, mi pare proprio che questo panorama stia rinverdendosi velocemente (pittori come Pesce Khete e Michele Tocca all’estero sarebbero già comodamente piazzati in una grande galleria) e sempre più sono le giovani pittrici a fare cose interessanti (Vera Portatadino, Lucia Veronesi, Sofia Silva, Nazzarena Poli Maramotti, Paola Angelini, per citare solo le prime che mi vengono in mente). Molto importanti, in senso strategico-culturale, progetti come Yellow (che negli ultimi cinque anni ha probabilmente rappresentato in Italia la vetrina più interessante per la pittura recente); o la residenza salentina (senza sponsor né diplomi) organizzata l’anno scorso da Luigi Presicce; o i testi militanti di Silva pubblicati su vari giornali. A quanto pare, la pittura ricomincia a dilagare: per non affogarci dentro ci serve urgentemente una nuova connoisseurship. E tocca ai pittori, volenti o nolenti, innescare e guidare questo processo (ne è un eccellente esempio Futuri Maestri, una raffinata conversazione sulla pittura tra Flavio De Marco e Sandro Sproccati). Ed eccoci qui: dobbiamo ricostruire una genealogia condivisa dell’arte italiana e della pittura in particolare: bisnonni, nonni, e soprattutto zii, cugini, padri e fratelli. Da solo, anche con l’aiuto di mecenati e grandi gallerie, nessuno si salverà.

‒ Damiano Gullì

Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
Pittura lingua viva#12 ‒ Marta Mancini
Pittura lingua viva #13 ‒ Francesco Lauretta
Pittura lingua viva #14 ‒ Gianluca Di Pasquale
Pittura lingua viva #15 ‒ Beatrice Meoni
Pittura lingua viva #16 ‒ Marta Sforni
Pittura lingua viva #17 ‒ Romina Bassu
Pittura lingua viva #18 ‒ Giulio Frigo
Pittura lingua viva #19 ‒ Vera Portatadino
Pittura lingua viva #20 ‒ Guglielmo Castelli
Pittura lingua viva #21 ‒ Riccardo Baruzzi
Pittura lingua viva #22 ‒ Gianni Politi
Pittura lingua viva #23 ‒ Sofia Silva
Pittura lingua viva #24 ‒ Thomas Berra
Pittura lingua viva #25 ‒ Giulio Saverio Rossi
Pittura lingua viva #26 ‒ Alessandro Scarabello
Pittura lingua viva #27 ‒ Marco Bongiorni
Pittura lingua viva #28 ‒ Pesce Kethe
Pittura lingua viva #29 ‒ Manuele Cerutti
Pittura lingua viva #30 ‒ Jacopo Casadei
Pittura lingua viva #31 ‒ Gianluca Capozzi
Pittura lingua viva #32 ‒ Alessandra Mancini
Pittura lingua viva #33 ‒ Rudy Cremonini
Pittura lingua viva #34 ‒ Nazzarena Poli Maramotti
Pittura lingua viva #35 – Vincenzo Ferrara

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Damiano Gullì

Damiano Gullì

Damiano Gullì (Fidenza, 1979) vive a Milano. I suoi ambiti di ricerca sono l’arte contemporanea e il design. Da aprile 2022 è curatore per l'Arte contemporanea e il Public Program di Triennale Milano. Dal 2020 è stato Head Curator del…

Scopri di più