Marta Sforni (Milano, 1966) vive e lavora a Berlino e Venezia. Tra le mostre recenti: Painting Now 2, Galleria Riccardo Crespi, Milano, 2018; The Venice Glass Week, Ca’ del Duca, Venezia, 2018; SPIEGELUNGEN – Flächen, Tiefen, Selbstbetrachtungen, Alte feuerwache, Projektraum, Berlino, 2018; DAVANTI, Galleria Riccardo Crespi, Milano, 2018; Painting Now, Galleria Riccardo Crespi, 2015; N.O.W., Galleria Riccardo Crespi, Milano, 2013; Combinatoria, Circolo degli artisti, Torino, 2012; Marta Sforni, Raum für Neue Kunst, Zurigo, 2012; Dreaming Beauties, Galleria Riccardo Crespi, Milano, 2012; ITALIENS-JUNGE KUNST IN DER BOTSCHAFT, Ambasciata d’Italia a Berlino, 2012.
Come ti sei avvicinata alla pittura?
Alla morte di mio padre ero appena una bambina, da quel giorno ho saputo che fra pittura, disegno e me stessa c’era una via per poter accedere al grande mistero.
Mio padre collezionava opere d’arte del Novecento. L’anno successivo alla sua scomparsa feci un viaggio con mia madre a Pompei e vidi la villa dalle pareti purpuree.
Chi sono i tuoi maestri e gli artisti, più o meno vicini, cui guardi?
Il mio sguardo spazia nel tempo: dal pittore di quel vaso di vetro della Villa di Poppea a Oplontis alla Tempesta di Giorgione a La Dessert Rouge di Matisse a Marthe nella vasca di Bonnard a quel soffio intorno al collo della bottiglia di Morandi al Dome di Bleckner a Queen of the Night di Taaffe alla Rothko Chapel… Può sembrare strano, ma maestro è stato pure Luciano Fabro che, professore all’Accademia di Brera, mi disse che per dipingere avrei dovuto essere capace di far sentire tutta la pesantezza della pietra che mi stava davanti.

Vivi tra Berlino e Venezia, città entrambe cariche di storia e memoria. Quanto questi due luoghi hanno inciso sulla definizione dei tuoi immaginari?
Da Berlino si vede meglio Venezia, la sua fragilità, la sua bellezza, la sua luce, la sua “vecchiezza”. Il rapporto vivo con la storia che ha Berlino consente di riflettere sul rapporto tutto particolare che Venezia ha col proprio passato.
Quali le altre fonti di ispirazione? Letterarie, cinematografiche, musicali…
Le Elegie duinesi di Rilke, Il carteggio Aspern di H. James, il Labirinto di Borges, Shakespeare, Fondamenta degli incurabili di Brodskij, L’anno scorso a Marienbad di Resnais, Il posto delle fragole di Bergman, Teorema di Pasolini, Lo specchio di Tarkovskij, le composizioni della famiglia Bach, la musica, lirica soprattutto barocca, Arvo Pärt ed Ennio Morricone.
Come nasce una tua opera? La tua è una pittura lenta o veloce?
Un’opera nasce dall’altra come per gemmazione, c’è sempre qualche cosa che rimane inesplorato nell’opera appena terminata, è una curiosità golosa, che spinge sempre avanti. Ripetendomi porto all´ennesima potenza quel primo assaggio. La pittura a olio non permette di correre.
Cosa rappresenta lo specchio? E cosa significa restituirne immagine ed essenza in un quadro?
È una metafora per una riflessione su di sé e sulla pittura. Chissà quanto profondo può essere uno specchio, dove sono tutti gli sguardi che lo hanno visitato? Cosa c’è dietro lo specchio? Si aprono spazi della memoria, emergono ricordi, emozioni, frammenti, lucidi o sfuocati. Mi piace anche ricordare il primo specchio, quello fatto d’acqua, dove si situa la nascita della pittura.
E l’ornamento, la decorazione?
Nell’ornamento c’è dentro il tempo che mi permette di arrivare all’astrazione.

Quanto conta la tecnica?
Un buon pianista conosce bene la geometria del suono, la valutazione delle distanze e la forza o la leggerezza con cui colpire un tasto, il tocco. La tecnica è una questione imprescindibile, me ne sono cucita una su misura, che riprende quella dei pittori veneziani che costruivano il colore velatura su velatura. L’olio la esalta. Un discendente di un’illustre famiglia di pittori veneziani mi diede la ricetta originale del rosa Tiepolo, che serbo con gran gelosia…
Ti concentri su determinati oggetti sempre ricorrenti nelle tue opere ‒ chandelier, tessuti, tendaggi e panneggi, vasi, vetri, i già citati specchi ‒, sintetizzandone dettagli ed estrapolandone pattern e motivi, rendendoli liquidi attraverso velature e trasparenze… La figurazione si diluisce e quasi approda a quella astrazione di cui parlavi prima. Come e perché avviene questo processo?
Indagando la fragilità, mi piace camminare come il funambolo tra quello che si vede e quello che scompare. Un equilibrio instabile.
Se del valore metaforico degli specchi abbiamo discusso, quale particolare valore simbolico e allegorico rivestono gli chandelier?
Paura del buio, esercizi per esorcizzare il buio, ma fatti di fragilissimo vetro.
Il buio ci porta alla notte e la notte alla serie Constellation del 2017, in cui predomina l’astrazione…
Ho passato una notte nelle carceri della Serenissima, si poteva vedere il cielo stellato. Il cielo è un’astrazione? E il tempo?

Il tempo, appunto, la memoria, il ricordo ‒ è sempre presente una sorta di patina un po’ fanée sui soggetti che dipingi ‒ sono elementi importanti nelle narrazioni sottese alle tue opere…
La chiave di accesso al presente è l’interrogazione del passato.
Cosa significa fare pittura oggi?
È la lingua attraverso la quale mi esprimo.
E cosa pensi della pittura italiana contemporanea?
È molto poco visibile, in Italia ma soprattutto all’estero.
‒ Damiano Gullì