Daniele Innamorato (Milano, 1969) vive e lavora a Milano. Tra le sue mostre personali recenti: No Like Tomorrow, Marsèlleria, Milano, 2017; Don’t Stop, Galleria Massimodeluca, Mestre, 2017; O Russet Witch!, Plus P, Milano, 2015. Tra le collettive: Buoni come il pane, Triennale Milano, 2019; I Lari. Gli spiriti protettori della casa, Triennale Milano, Galleria Antonio Colombo, Superstudio, Moscow Design Week, 2018; Workwear, Parson School, New York. È socio fondatore del collettivo artistico KINGS (con Federica Perazzoli).
Come ti sei avvicinato alla pittura? Hai iniziato con la fotografia…
In realtà ho sempre disegnato fin da bambino e, verso i 16/17 anni, ho iniziato, in concomitanza con gli studi di fotografia, a dipingere assiduamente. Mio padre ha dipinto molto in gioventù e mi ha influenzato. La fotografia è un mezzo che uso costantemente.
Chi sono i Maestri e gli artisti cui guardi e che sono stati importanti per la tua formazione?
Van Gogh, Bacon, Twombly. E poi Warhol, Haring, Basquiat, e poi ancora Josef e Anni Albers, Morris Louis, Ellsworth Kelly, ma in assoluto amo artisti come Man Ray e David Hockney. I Talking Heads e i Dead Kennedys sono la mia scuola. Sex Drugs & Rock’n’Roll!
Credo comunque che la mia formazione sia molto più underground e non accademica, non ho studiato arte, la mia scuola è stata non andarci. È stata frequentare tossici, musicisti e disoccupati. Ero più attratto dalla moda, intesa come evento che rappresenta un’epoca con tutte le sue sfumature, negli anni della mia formazione abbiamo vissuto il post punk, la new wave, i club, le droghe e il sesso. La musica è un’emozione molto potente, Videomusic e le contaminazioni sono state fondamentali. Damien Hirst, Sterling Ruby, Christopher Wool, Dash Snow, Rudolf Stingel, Maurizio Cattelan, Roberto Cuoghi: la lista è infinita, sono molti gli artisti contemporanei che apprezzo. Non c’è paragone tra il fascino di una vita spezzata – come quella vissuta da Basquiat o Haring con il corpus di lavori da lui realizzato – e la stupida vita di un banale artista che non ha vissuto nulla, di cui nessuno si ricorderà – di lui e delle sue puttanate – anche se ha avuto notevoli riconoscimenti in questa epoca spesso vuota e tristemente borghese. Ho preferito buttarmi nel fuoco, andare all’inferno e poi tornare.
Come nascono i tuoi collage, penso ad esempio a quelli esposti nel 2017 nella mostra in Marsèlleria. È un lavoro molto denso e stratificato, la cui complessità si riesce a percepire bene solo quando osservati dal vivo.
Lavoro molto su carta. Tra i tanti lavori fatti alcuni non funzionavano, erano orrendi! Non mi piacevano. Considera che io tengo sempre tutto, anche gli scarti: ho montagne di spazzatura. Poi a distanza di tempo riguardo tutti i lavori e, in questo caso, ho trovato il modo di riutilizzarli, tagliandoli e ricomponendoli. Ne è nato un ciclo enorme, alcune opere di grandi dimensioni. Quando ho finito la spazzatura però ho iniziato a produrre appositamente dei dipinti su carta per realizzare dei nuovi lavori. Quello in Marsèlleria è molto tridimensionale, ricco di strati e materiali, credo ci siano 200 dipinti su carta nel formato 50×70 cm, ritagliati per comporre il lavoro finale di 350×500 cm. Mesi di lavoro e super assistenti! Purtroppo, come spesso accade in una riproduzione fotografica, non puoi percepire un bel cazzo… rispetto all’opera vista dal vivo.

LA PITTURA SECONDO INNAMORATO
Un lungo e paziente lavoro, quindi. In generale, la tua è una pittura veloce o lenta?
Nel caso dei collage molto paziente e lenta, ma alcuni miei lavori sono velocissimi. La serie di dipinti chiamata Cellophane è realizzata spesso in pochi minuti. Gli Inguardabili, nome dato dall’architetto Rodolfo Dordoni – dovuto al fatto che queste opere sono impossibili da mettere a fuoco – sono realizzati con estrema concentrazione. Non posso neanche respirare a ogni singolo segno. Se sbaglio rovino tutto. Lavoro in apnea. Il risultato è una serie di pallini colorati fatti a spruzzo, un lavoro sulla percezione visiva. Una gioia per i bambini. Io non vorrei mai averne uno in casa: è come essere fatti di continuo.
Dal racconto della genesi dei tuoi collage si evince quanto sia importante la sperimentazione sui materiali. Come avviene? Come li scegli e quanto contano anche gli elementi più umili e di scarto?
Dopo 35 anni di lavoro, spesso sperimentale e casuale, accumuli una padronanza nella tecnica che consente di spaziare da un supporto all’altro, da media a materiali diversi, con un senso compositivo e armonico. In genere non c’è una logica particolare, è più istintivo tutto il lavoro.
Nel tuo percorso sei partito dalla figurazione per arrivare all’astrazione. Come è avvenuto questo passaggio, come si è trasformato il tuo lavoro nel tempo?
È stata un’esigenza quella di passare dal figurativo all’astratto, non avevo più voglia di parlare dei miei cazzi, o forse ero meno arrabbiato. Di fatto ho sentito la voglia di qualcosa di leggero, di semplice, di privo di soggetto. Ciò nonostante, questo non significa che non ci siano anche i miei drammi nelle opere astratte, almeno non sono così dichiarati.
Sempre costante una certa ambiguità della pittura. Ti ritrovi in questa definizione del tuo fare pittorico?
PITTURA DA SEMPRE – PER SEMPRE.
Causalità e casualità: come convivono nelle tue opere?
Tutto il mio lavoro è un caos totale, preso nell’insieme. Io sono un caos totale, un disastro. Istinto animalesco che convive con calma, ordine, studi, regole, composizione, segno, gesto-isterismo nevrotico, caso, enormi sprechi e un sacco di denaro.

PITTURA E FONTI DI ISPIRAZIONE
E il gesto in rapporto alla tela e alla materia che ruolo svolge?
Negli ultimi anni ho lavorato in spazi molto grandi e, di conseguenza, ho lavorato contemporaneamente su più opere di grande formato. Durante la realizzazione mi ritrovo in una sorta di azione, è più una performance e il rapporto materia/tela/gesto è più animalesco, è più un rito fisico.
Ecclettismo e trasversalità caratterizzano il tuo percorso artistico. Raccontaci del progetto transdisciplinare KINGS che porti avanti con Federica Perazzoli, in cui si intrecciano video, fotografia, design, editoria indipendente, moda, attitudine underground e punk.
KINGS è l’esempio del fatto che un artista con una formazione come la nostra senta l’esigenza di produrre con qualsiasi media, come se non si riuscisse a stare fermi. Come dicevo precedentemente “un disastro”: migliaia di fotografie, collage, disegni, neon, magazine, libri d’artista e ora anche un brand.
Giorgio Verzotti parla della tua pittura come di una pittura che “pretende un gesto eroico, che supera se stessa”. Tanto è dato anche dall’impiego di formati monumentali. Da cosa è derivata questa scelta?
Entrare dentro un dipinto di 10 metri è totale, è un rapporto che va al di là della pittura, è sesso, è una danza, anche un’esigenza fisica. Vedere Guernica di Picasso o i 102 dipinti di Warhol Shadow installati tutti insieme in uno spazio unico ha un impatto emozionale pazzesco, più vicino alla percezione visiva e alla teatralità. Il risultato finale è invadente e questo mi piace. Sono perfetti per i musei! Comunque, produco anche piccoli lavori, dei piccoli gioielli.
Hai lavorato per lo Studio 117 di Milano, spazio polifunzionale sede d’importanti studi fotografici, facendo da assistente a grandi ritrattisti di moda – da Albert Watson ad Aldo Fallai, da Walter Chin a Bob Krieger. Contestualmente hai creato scenografie e set per shooting. Come l’amore per la scenografia si ritrova nei tuoi lavori? C’è un collegamento con l’aspirazione alla monumentalità delle tue opere?
L’influenza data dalla finzione della fotografia e della scenografia nella creazione dell’immagine è stata fondamentale per i miei studi, così come il cinema e il teatro. La realizzazione di una mostra per me non è limitata alla realizzazione delle singole opere ma a un pensiero più ampio, a quello che è uno show, un evento, un’emozione. Il confronto con lo spazio in cui vengono installate le opere è fondamentale, e poi il ritmo, la luce. Mi piacciono particolarmente gli artisti che in qualche modo, quando entri in una mostra, ti danno un pugno in faccia rispetto alla stragrande maggioranza di mostre visitate negli ultimi vent’anni nelle gallerie milanesi, dove spesso opere e pubblico erano una noia mortale, pali nel culo. Uguale a Deitch Projects, no?
Come nascono invece i tuoi quaderni – questa sì una dimensione più privata e raccolta – in cui raccogli minuziosamente appunti, disegni, schizzi, ma soprattutto memorie, emozioni e sensazioni?
Nei miei quaderni, diari e libri d’artista raccolgo storie, ritagli, disegni, appunti, sogni, progetti. Ci puoi trovare riferimenti a Munari, un vaso di Antonia Campi, disegni erotici, il progetto di casa. Molti sono realizzati rilegando piccoli dipinti su carta, alcuni dipinti sono fatti sulla Domenica, allegato a Il Sole 24 Ore, e naturalmente ho usato anche gli scarti!
Quali sono le tue fonti di ispirazione, tra letteratura, poesia, musica e cinema?
“Non leggo mai, guardo solo le figure” come diceva Warhol. Leggo solo biografie o testi sull’arte. Non sono mai stato ispirato dalla letteratura o dalla poesia. Raymond Pettibon è un poeta per me, ma la musica è la mia droga.

LA PITTURA IN ITALIA
Perché fare pittura oggi?
La pittura è assolutamente eterna ed è anche vero che nell’ultimo secolo abbiamo conosciuto cambiamenti radicali dei linguaggi e svariate nuove contaminazioni. Di conseguenza la pittura, che è praticamente primitiva, è qualcosa di vecchio, scontato, superato. Ma pur sempre intramontabile. È più facile, ha una comprensione più semplice. Curatori, gallerie e critici ci mettono di fronte ad artisti che producono opere con i più svariati nuovi mezzi. Questo è fondamentale per la crescita culturale, il mercato però, nella maggioranza dei casi, compra la pittura. Le persone vogliono appendere un cazzo di quadro al muro. Io dipingo perché sono pazzo, sono ossessionato, posseduto. È un’esigenza, non dipende da nient’altro. È vitale. Lo devo fare e basta. Anche questo è un dramma: migliaia di opere in archivio, Mi chiedo: “Ma perché?”. Ma non puoi farne a meno.
E cosa pensi della situazione della pittura contemporanea italiana?
In Italia tutta l’arte contemporanea vive una situazione complicata, come tutto il sistema culturale italiano. Nello specifico, la pittura ha sempre subito un ritardo rispetto ad altri Paesi, ma abbiamo molti bravi artisti.
‒ Damiano Gullì