Pittura lingua viva. Parola ad Alessandra Mancini

Viva, morta o X? 32esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.

Alessandra Mancini è nata a Campobasso nel 1972. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Firenze, vive e lavora a Milano come artista e come grafica nell’ambito dell’editoria d’arte contemporanea. L’ultima personale è Matchy-Matchy al Caffè Internazionale di Palermo nel 2017. Tra le mostre collettive: Festival del Paesaggio, Anacapri, 2018; Les armes silencieuses, Centre d’Art Bastille, Grenoble, 2011; Prague Biennale 4, Praga, 2009; Gennariello, Balice Hertling, Parigi, 2009; Calling all the stations, Galleria Nazionale, Pristina, 2009.

Come ti sei avvicinata alla pittura?
Ricordo di aver sempre manifestato interesse per le immagini. Adesso che mi ci fai pensare credo che il primo atto di scelta consapevole del mezzo espressivo sia stato quando alle lezioni di educazione musicale alle scuole medie imposi il mio unico contributo possibile, che era quello di ritrarre i musicisti che ascoltavamo in classe.

E a sedici anni realizzavi opere di de Chirico su commissione… 
Ho accennato a questo aneddoto perché a volte mi veniva fatto notare un legame della mia pittura con de Chirico. Frequentavo il liceo artistico, ma non ero stimolata dai metodi d’insegnamento, per cui iniziai un mio percorso di conoscenza fatto ripercorrendo la storia dell’arte. Nella pratica, iniziai tentando di riprodurre il primo pittore che mi sembrava moderno cioè Caravaggio, fino ad arrivare ai pittori del Novecento. Volevo comprendere le intenzioni degli artisti, ma con de Chirico arrivò la prima commissione da parte di un insegnante (Le muse inquietanti), finché chiunque conoscessi si sentì in diritto di avere il suo quadro. Ho fatto anche dei simil Miró, Balla o Duchamp però de Chirico era sempre quello più apprezzato, e questo me lo fece detestare per un bel po’ di tempo, tanto che per tutto il periodo dell’Accademia non ho più dipinto. Gli aneddoti sono interessanti, a posteriori aiutano a delineare un percorso. E ammetto che ho fatto pace con de Chirico.

Come si è trasformato nel tempo il tuo lavoro? Nei primi lavori era presente la figura umana in situazioni ambigue, enigmatiche, spesso “intrappolata” in strutture o griglie geometriche, in altri casi alle prese con oggetti ma sempre in contesti straniati. Poi sei passata alla sottrazione della figura in favore dell’oggetto, però “umanizzato”.
L’essere umano è sempre il soggetto dei miei lavori, ma mai il protagonista. Nei primi dipinti cui ti riferisci i soggetti non erano chiaramente definiti o contestualizzati ed erano quasi sempre di spalle. Le figure umane erano trattate più come forme collocate nello spazio al fine di esprimere concetti astratti ed esistenziali. Sempre in questa direzione gli oggetti presenti nei dipinti più recenti riescono, senza essere direttamente legati a un’individualità, ad avere una forza simbolica più diretta che li rapporta al nostro linguaggio.

Alessandra Mancini, Divano osceno, 2017. Olio su tela, 51 x 67 cm

Alessandra Mancini, Divano osceno, 2017. Olio su tela, 51 x 67 cm

Trovo molto affascinate il tuo lavoro sulle icone di design, rimanda all’antropologia dell’oggetto, tema centrale per Alessandro Mendini. L’oggetto “diventa” chi lo usa e possiede, ne cattura l’anima…
Mendini era un creatore, agli oggetti dava un’anima e anche un nome. Per me l’oggetto di design, quello che diventa icona ‒ di un tempo, di un gusto ‒ porta con sé un’aura che procura una reazione emozionale oltre che estetica e l’interazione con esso diventa un atto performativo. È questo che lo fa diventare antropologicamente interessante, acquisendo un valore che definirei “mitico”.

Che rapporto hai quindi con il design? Lo acquisti? Lo collezioni? Visiti mostre e fiere?
No, non ho alcun rapporto diretto, però ho sempre avuto una passione un po’ repressa per il design e l’architettura. Quando studiavo all’Accademia avevo molti amici che facevano architettura e spesso li aiutavo per i loro esami. In quel periodo feci diversi progetti di design con i quali mi presentai ingenuamente a diverse ditte importanti, senza successo ovviamente, ma li conservo ancora, mi fanno tenerezza.

E come sei arrivata a rappresentare sessualità ed erotismo degli oggetti? Quando un divano diventa “osceno”, come nel caso della tua omonima opera del 2017?
Già nel desiderio di possesso di un oggetto sta il suo aspetto erotico, poi l’oggetto di arredamento è seducente per natura perché pensiamo che possano riflettere una nostra visione estetica. Il Divano osceno è il divano dell’Ikea, quello che ho a casa, quindi è un po’ pornografia a basso costo. Gli altri quadri della serie Matchy-Matchy invece, sempre per fare un parallelismo, sono racconti erotici: storie di passione, di scandalo o ancora di torbide relazioni.

Come scegli i tuoi soggetti?
Tutta la serie Matchy-Matchy nasce, ad esempio, in un periodo in cui avevo da poco comprato casa ed era spoglia e impersonale. Credo che tutte le mie fantasie più perverse per renderla mia si siano concretizzate quasi inconsapevolmente in questi lavori. In generale quello che ho in mente, anche il pensiero più astratto, mi viene automatico concretizzarlo in immagine, pescando dal patrimonio visivo individuale e collettivo. Altre volte è un’immagine, un oggetto o un incontro a scatenarmi una serie di elucubrazioni mentali che mi portano a sviluppare un soggetto.

Alessandra Mancini, Shape of Us, 2018. Olio su tela, dittico, 24 x 30 cm ognuno

Alessandra Mancini, Shape of Us, 2018. Olio su tela, dittico, 24 x 30 cm ognuno

Come nasce invece la serie Shape of us e come in seguito approdi a Shape of you, in cui l’oggetto e il pattern sottostante sfociano nell’astrazione?
Shape of you è essenzialmente una serie di ipotetici ritratti femminili. Tutto nasce da un posacenere recuperato dalla casa dove sono cresciuta, che mi affascinava per le sue forme antropomorfe. Lavorando sull’idea del ritratto mi sono aperta agli elementi decorativi perché la decorazione non mi sembrava superflua in questo caso, ma descrittiva e caratterizzante. Shape of us è una deriva da questi lavori che nasce dall’input esterno di una mostra a tema. Qui ho rappresentato le immagini speculari di crateri lunari e i corrispondenti meteoriti che li hanno provocati.

Che ruolo ha l’ironia nel tuo lavoro?
Credo che l’ironia sia alla base del lavoro di ogni artista, altrimenti è tutta retorica.

La tua attività spazia dalla grafica al video all’animazione. Come si relazionano queste discipline con la tua pratica pittorica?
Io lavoro anche come grafica e per anni ho lavorato in una rivista d’arte contemporanea, quindi non posso che sostenere l’eclettismo. E questo avviene anche nella mia pratica artistica. Se devo darmi una definizione, sono una pittrice, ma lo sono anche se faccio un video o un’installazione.

Il disegno invece ha un ruolo? 
Non vivo il disegno come base del progetto, non ho blocchi pieni di schizzi. Trovo una forma di autocompiacimento nel disegno che mi distrae. È una forma di espressione a sé quindi lo uso come tale, ho fatto diversi lavori utilizzando principalmente il disegno come nella serie Manifesto, ispirata ai manifesti politici degli Anni Cinquanta, e in Agoraphobia, un breve film animato dai toni onirici che solo il disegno poteva rendere.

Ci sono tecniche o formati che prediligi?
Prediligo la tecnica che al momento mi sembra quella più adatta, può capitare però che un lavoro nasca proprio dalla voglia di usare un determinato strumento.

La tua è una pittura lenta o veloce?
È una pittura relativamente veloce, finalizzata alla realizzazione del quadro, cerco di non perdermi troppo nel piacere della pittura. Sufficientemente lenta da essere essa stessa un processo di elaborazione dell’idea, ma se va troppo per le lunghe vuol dire che c’è un problema ed è meglio passare ad altro.

Lavori in studio?
Non ho uno studio, ci provai anni fa ma fu un fallimento, mi metteva ansia e non riuscii mai a realizzarci niente dentro. Per molti artisti invece è fondamentale quello stacco dalla vita quotidiana per entrare nel mood, io preferisco lavorare a casa, se ho un’idea o un progetto creo il caos e poi ne esco. Il mio rapporto con la pittura non è quello di una pratica quotidiana, si svolge magari in poche giornate intense intervallate da pause più o meno lunghe in cui è comunque un pensiero costante.

Alessandra Mancini, Matchy Matchy, 2017. Olio su tela, dittico, 30 x 25 cm ognuno

Alessandra Mancini, Matchy Matchy, 2017. Olio su tela, dittico, 30 x 25 cm ognuno

Quali sono le tue fonti di ispirazione? Letterarie, musicali, cinematografiche…
L’ispirazione, se così vogliamo chiamarla, non la trovo in un libro o in un film. Nella letteratura, musica, cinema ho degli interessi, spesso ho trovato consolazione, al limite posso cercare degli approfondimenti, ma gli stimoli io li ricevo più dall’osservazione, dalla vita, dai ricordi soprattutto e dai rimandi fra le cose.

Quanto conta la messa in scena delle tue opere? Il dialogo che si crea tra l’una e l’altra e lo spazio che le accoglie…
È un dialogo che parte già in fase di concepimento perché non penso mai a un’opera singola, ma a un insieme che sviluppo in contemporanea o una in conseguenza dell’altra e, nel frattempo, mi immagino anche come potrebbero essere esposte. Se si lavora per uno spazio specifico, questo dà ulteriori spunti di sviluppo tridimensionale.

Perché fare pittura oggi? 
Il fatto che gli artisti continuino deliberatamente a scegliere di fare pittura ignorando o anche giocando con le periodiche dichiarazioni di morte dimostra la sua continua attualità.

Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea? 
Mi sembra un momento liberatorio per gli artisti. Soprattutto gli artisti giovani vivono più disinvoltamente l’approccio alla pittura rispetto agli anni passati. Se invece parliamo di scena artistica intesa come presentazione e divulgazione, c’è sicuramente una generale apertura verso la pittura, dettata anche dal mercato, ma rimane una certa diffidenza degli operatori del settore. Credo che dopo anni di rifiuto adesso manchino un po’ le basi critiche.

‒ Damiano Gullì

Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
Pittura lingua viva#12 ‒ Marta Mancini
Pittura lingua viva #13 ‒ Francesco Lauretta
Pittura lingua viva #14 ‒ Gianluca Di Pasquale
Pittura lingua viva #15 ‒ Beatrice Meoni
Pittura lingua viva #16 ‒ Marta Sforni
Pittura lingua viva #17 ‒ Romina Bassu
Pittura lingua viva #18 ‒ Giulio Frigo
Pittura lingua viva #19 ‒ Vera Portatadino
Pittura lingua viva #20 ‒ Guglielmo Castelli
Pittura lingua viva #21 ‒ Riccardo Baruzzi
Pittura lingua viva #22 ‒ Gianni Politi
Pittura lingua viva #23 ‒ Sofia Silva
Pittura lingua viva #24 ‒ Thomas Berra
Pittura lingua viva #25 ‒ Giulio Saverio Rossi
Pittura lingua viva #26 ‒ Alessandro Scarabello
Pittura lingua viva #27 ‒ Marco Bongiorni
Pittura lingua viva #28 ‒ Pesce Kethe
Pittura lingua viva #29 ‒ Manuele Cerutti
Pittura lingua viva #30 ‒ Jacopo Casadei
Pittura lingua viva #31 ‒ Gianluca Capozzi

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Damiano Gullì

Damiano Gullì

Damiano Gullì (Fidenza, 1979) vive a Milano. I suoi ambiti di ricerca sono l’arte contemporanea e il design. Da aprile 2022 è curatore per l'Arte contemporanea e il Public Program di Triennale Milano. Dal 2020 è stato Head Curator del…

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