Enne Boi è nato a Cantù nel 1989. Dal 2008 al 2010 frequenta il corso triennale di Pittura e Arti Visive presso la NABA di Milano, dove fonda il collettivo F84 insieme a Nicolò Bruno, Gianluca Craca, Ronny Franceschini, Giulia Serafini e Cecilia Valagussa, con cui lavora per quattro anni realizzando numerosi progetti di arte partecipata. Nel 2013 si trasferisce a Gent, in Belgio, consegue una laurea specialistica in Fine Arts presso la KASK School of Arts e vince il primo premio Stitching René Bruynseraede-De Witte. Dal 2014 inizia la sua collaborazione con Archiaar Gallery, Bruxelles, ed espone il suo lavoro in mostre personali e collettive presso istituzioni e musei europei. Tra le mostre personali: Facciatosta Records, TOAST Project Space, Firenze, 2019; Matryoshka Principle, duo con Falcone, Archiraar Gallery, Brussels, 2016; The Unresolved Problems, Archiraar Gallery, Bruxelles, 2015; The Secret Weapon of Gaudier-Brzeska, Croxhapox, Gent, 2014. Tra le mostre collettive recenti: JCE ‒ Contemporary Art Biennale, Amadeo de Souza-Cardoso Museum, Amarante, 2019 ‒ Museu de l’Empordà, Figueres, 2019 ‒ Pinacoteca Civica e San Pietro in Atrio, Como, 2019 ‒ The Art Building, Vrå, 2018; The Apartment, Centre de la Gravure Museum, La Louvière, 2018; Onderweg, Cultuurcentrum Zwaneberg, Heist-op-den-Berg, 2017; War Party, Royal Museum of Military History, Brussels, 2016.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
In realtà, è lei che mi è sempre stata vicina, nel senso che sono cresciuto in una casa stracolma di quadri. A un certo punto iniziare a dipingere è stato inevitabile.
Quali sono i maestri e gli artisti cui guardi?
La mia “Santissima Trinità” è composta da Giotto, Picasso e Baselitz.

Perché la scelta di un linguaggio prevalentemente figurativo?
Durante un’intervista con Sylvester, Bacon disse che secondo lui l’arte è un’ossessione per la vita e, dato che siamo esseri umani, la nostra più grande ossessione è quella per noi stessi. Poi ci sono gli animali e i paesaggi. Sono molto d’accordo.
L’uomo è sempre al centro delle tue composizioni, spesso in relazione con la natura e il paesaggio. Chi sono i protagonisti delle tue opere? Cosa rappresenta la natura? Una via di fuga? Un Paradiso perduto?
Personalmente non mi interessa tradurre il mio linguaggio pittorico in linguaggio verbale. Non ho mai caricato intenzionalmente i dipinti di metafore o significati. Qualsiasi elemento che inserisco in un’opera nasce da un’esigenza puramente formale. Per esempio, da tempo, le forme di rami, foglie e liane mi fanno molto comodo, ma appena trovo qualcosa di meglio le abbandono volentieri.
Ricorrente è l’insistenza sui volti. Volti però spesso irriconoscibili, deformati, ridotti a maschere… E si ritrova la maschera in installazioni come War Masks o Metal Mask. Cosa rappresentano per te il volto e la maschera?
Amo moltissimo le forme del viso. Potenzialmente potrei dipingere volti e basta per tutta la vita e non annoiarmi mai, ma sarebbe una scelta molto vigliacca. Il mio interesse per la maschera è una conseguenza di questo, nel senso che per me è una sorta di “ipervolto” da plasmare all’ennesima potenza.
Lavori tridimensionali, quali appunto quello delle maschere, come si relazionano con quelli pittorici? La pittura è un fine o un mezzo? Possiamo parlare di pittura espansa?
Di solito questi lavori scaturiscono dall’esigenza di rendere tridimensionali elementi formali emersi nei miei dipinti. Per me la pittura è il fine assoluto, anche se non parlerei di pittura espansa perché i lavori che creo con altri media non li considero come “orpelli” della pittura, sono autonomi.
Hai titolato una tua installazione Il problema irrisolto della rappresentazione pittorica. Resta sempre un problema aperto? Come affrontarlo?
Si tratta di un problema impossibile da risolvere o definire, l’unico modo per affrontarlo è dipingere.

Le tue opere sono caratterizzate da una forte ambiguità: ambiguità nel rapporto figura/ sfondo, ambiguità nella riconoscibilità dei personaggi e delle storie sottese. Ad avvalorare questo aspetto la scelta di titolare molti lavori Rebus, cui segue un ulteriore “indizio” tra parentesi. Come vuoi che siano recepite le tue opere? Dicevi prima che non hai mai caricato intenzionalmente i dipinti di metafore o significati. Preferisci quindi lasciarli aperti all’interpretazione?
Questa sorta di ambiguità diffusa è un elemento fondamentale del mio lavoro. Il titolo seriale Rebus nasce proprio dalla fascinazione che ho per i rebus delle settimane enigmistiche: non provo mai a risolverli, mi basta osservare l’immagine e l’apparente assurdità della composizione. Il mio rapporto con la pittura è molto simile. Per quanto riguarda il discorso della ricezione, mi interessa solamente che le mie opere vengano ritenute valide, sono totalmente aperte all’interpretazione, ammesso che abbia senso interpretarle.
Che funzione ha il disegno nella tua pratica e in relazione alle tue opere?
Il disegno è un mezzo cui sono molto legato, anche se nel mio lavoro rimane quasi sempre dietro le quinte. Di solito prima di iniziare a dipingere faccio una serie di piccoli schizzi compositivi su carta, molto indefiniti, e ne scelgo uno che diventa l’input iniziale; appena il dipinto prende il suo corso, lo schizzo viene tradito e successivamente dimenticato.
Quando dipingi prevale la componente razionale o emotiva?
Direi che prevale una razionalità “pittorica”, priva di logiche o ragionamenti strutturati, che quando non è sufficiente a risolvere il dipinto innesca una reazione emotiva. Se sono fortunato, questa reazione mi permette di sbloccare il dipinto, altrimenti mi porta a cancellare tutto e ricominciare.
Che ruolo ha il colore?
Un ruolo fondamentale, anche se da anni ho il dubbio di essere leggermente daltonico e mi chiedo spesso se è possibile che tutti vedano i colori nei miei dipinti in modo diverso rispetto a me.

Ci sono formati o tecniche che prediligi?
Quasi sempre combino i colori a olio con aerografo e bombolette spray su tela. La relazione tra i due segni completamente diversi della pennellata e della vernice a spruzzo costituisce l’ossatura di gran parte dei miei dipinti.
La tua è una pittura lenta o veloce?
Direi che è una pittura abbastanza lenta, raramente mi capita di iniziare e finire un dipinto in poche ore.
Lavori in studio?
Certo!
Quanto la musica, il cinema, la letteratura influiscono sui tuoi lavori e sulla tua poetica?
Sicuramente moltissimo, anche se è quasi impossibile definire come e perché, salvo rari casi. Si tratta di un’influenza trasversale e non diretta.
Vivi tra il Belgio e l’Italia e anche la tua formazione è internazionale, tra Paesi Bassi, Belgio e Italia. Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea, alla luce del tuo confronto con altre realtà internazionali?
Penso che ci sia molto fermento e soprattutto moltissima qualità, anche se non mi sembra che all’estero la pittura italiana contemporanea abbia l’impatto che merita. Mi vengono in mente artisti come Paola Angelini e Marco Bongiorni: mi sembra assurdo che non abbiano ancora un ruolo di rilievo a livello internazionale.
‒ Damiano Gullì