Alessandro Sarra è nato a Roma nel 1966. Tra le sue mostre personali: Progetto per una gita su Marte, Caffè Internazionale, Palermo, 2017; Pesiemisure, Studio Mancini, Roma, 2016; Bada al senso e i suoni baderanno a se stessi, Frutta Gallery, Roma, 2013. Tra le mostre collettive: Moto ondoso stabile, Sara Zanin Gallery, Roma, 2017; La teoria della nuvola, Galleria Marcolini, Forlì, 2016; La Struttura alare del calabrone non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso, Fondazione per l’Arte, Roma, 2016; Èdra. Tutta l’Italia è silenziosa”, Real Accademia di Spagna, Roma, Istituto Russo per le Arti e Scienze, Roma, 2015; In Abstracto, Alessandro Casciaro Art Gallery, Bolzano, 2015.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
Non saprei dirti con certezza il come e il quando. In prima media, nel pomeriggio, andavo nella bottega di una ragazza che realizzava delle ceramiche; mi appassionai molto sia alla foggiatura sia alla decorazione, e decisi di iscrivermi all’Istituto d’Arte a Pesaro per studiare la ceramica. Penso si possa individuare in quel periodo il mio primo avvicinamento all’arte. Poi, dopo gli studi, dopo il servizio militare e una serie di lavori vari, non ho continuato a lavorare con la ceramica: ho cominciato a dipingere. Con la pittura ho sempre avuto – sia da spettatore sia da pittore – un rapporto conflittuale, ma facendoci pace quasi sempre.
Quali sono i maestri e gli artisti cui guardi?
Ho sempre pensato che La Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca sia il quadro più contemporaneo che esiste, al limite del futuribile. Ai tempi della scuola guardavo molto i Della Robbia, sia per la scultura sia per la ceramica. Ora guardo tutti costantemente, perché subisco fascinazioni continue e diverse. Mi interessano Brice Marden, Christopher Wool e anche molti artisti italiani, come Carla Accardi e Afro. A casa di amici collezionisti ho visto un quadro di Antonio Corpora, dal titolo Inverno, dipinto in Germania nel 1954, e ho l’impressione che quel periodo di Corpora anticipi una grande stagione della pittura tedesca da Kiefer in poi, avvenuta circa 10/15 anni dopo. Me è un mio pensiero.

Come sei approdato all’astrazione?
Non sono mai approdato, ho solo cominciato a concentrami su delle cose piuttosto che su altre.
Figurazione e astrazione: quando finisce una e inizia l’altra?
Esiste la pittura, astrazione e figurazione sono delle convenzioni.
Che funzione ha il disegno nella tua pratica e in relazione alle tue opere?
Considero il disegno una questione quotidiana. Molto spesso è totalmente disconnesso dalla pittura, altre volte ne getta le basi.
Come il tuo lavoro si è trasformato nel tempo?
Dipingendo la stessa cosa da venticinque anni circa, credo che ci siamo trasformati insieme.
Quanto la musica, il cinema, la letteratura influiscono sui tuoi lavori e sulla tua poetica?
Direi che influenzano la mia vita quotidiana, prima di tutto.
E la tua pittura come dialoga con la musica, in particolare?
Non so suonare alcuno strumento e non so scrivere o leggere la musica, ma spesso nella vita ti attraggono proprio le cose che non sai fare.

Collegandosi alla musica, cosa rappresenta il ritmo per te? E che ritmo hanno le tue composizioni?
Da piccolo, quando mi portavano alle mostre, cercavo di capire se le opere che guardavo quando mi giravo si muovevano. Così, dopo averle osservate, mi rigiravo continuamente di scatto per controllare. Ho pensato per molto tempo che si muovessero, anche solo impercettibilmente, e che lo facevano magari per farmi dei dispetti o per giocare. Ora mi rendo conto che le sculture pesano e i quadri sono appesi ai chiodi, ma la mia attenzione al movimento è rimasta. Solo che cerco quelle sfumature, quei gesti minimi che fanno vibrare un lavoro, che non lo fanno stare fermo. Mi è rimasta la fissazione del ritmo. Quando ho iniziato a dipingere ho assunto lo stesso atteggiamento. Non credo di riuscire sempre a dipingere mantenendo il ritmo al centro, ma il fallimento è parte fondante del lavoro.
Hai più volte affermato di sentirti fuori sincrono rispetto al quotidiano…
È difficile raccontare e provare a spiegare una sensazione. È un po’ sentirsi fuori tempo massimo ancora prima di aver iniziato qualcosa. Una dicotomia astronomica controllata. Ma essendo una sensazione, nel corso degli anni, questa frattura a volte si compatta e altre si dilata, con una frequenza – appunto – controllata.
Hai affermato che dipingere è un gesto politico…
Questa affermazione risale a qualche anno fa, durante una bella chiacchierata avuta con la critica Daniela Bigi, in cui sostanzialmente ragionavo sul valore politico del gesto nella società contemporanea. Per spiegarmi, dico che in una società basata quasi esclusivamente sulla velocità, legata meramente al profitto, ogni elemento di “rallentamento” diventa dirompente, spezza il meccanismo. La pittura, a prescindere dai contenuti, proprio per la sua natura contemplativa obbliga sempre a una seconda lettura sia chi la guarda sia chi la fa. Questo a mio avviso è un rallentamento, e in quest’ottica indica una strada altra. Credo che praticare pittura, cioè il gesto stesso del pittore, possa essere considerato politico in questo senso.
Nel 2013 titolavi una tua personale Appunti per la rivoluzione. A che punto siamo? È ancora tempo di fare una rivoluzione?
È sempre tempo per fare la rivoluzione. Il momento storico ci fa assistere inequivocabilmente a degli sconvolgimenti di diversa natura: migrazioni, emergenze climatiche, ingiustizie sociali a livello locale e mondiale. A volte si fa fatica a credere che il pensiero occidentale, così come lo abbiamo sempre considerato, goda di ottima salute. Probabilmente ci è richiesto di rivedere alcune cose. Il futuro è incerto, del resto non può che essere altrimenti. Per quanto mi riguarda, come artista ho sempre considerato rivoluzionaria la normalità. Anche la mostra cui ti riferisci trattava esclusivamente della natura rivoluzionaria della pittura. Perché credo che in certi periodi si torni a essere poco avvezzi alla normalità e molto coinvolti, invece, dai sensazionalismi. In Italia, dopo un lungo periodo di assenza, si intravedeva di nuovo una flebile attenzione alla pittura, secondo me dovuta a un riflesso di mercato internazionale, più che a una vera convinzione. Del resto, fuori da qui la pittura non è mai mancata nel dibattito culturale. Parliamo appunto del 2013, quindi mi sembrava opportuno fare una mostra di quadri. Prendendo in prestito uno stralcio di un pensiero più ampio di Luca Bertolo, artista e intellettuale a me caro: “Che senso può avere oggi – mezzo secolo dopo l’espulsione della pittura dal novero dei media legittimati a essere contemporanei – dipingere e guardare quadri?”.

Quali sono le tue paure?
Fortunatamente non mi sono mai fatto mancare nulla in fatto di paure, ipocondrie e preoccupazioni varie, trattando tutto sempre con una serietà al limite del professionale.
Quando dipingi prevale la componente razionale o emotiva?
Prevale la necessità di farlo.
Quanto conta la tecnica?
Per provare a fare questo mestiere dignitosamente la tecnica ti è richiesta ed è necessaria.
Che ruolo ha il colore?
Ha un ruolo importante a seconda di quello che sto realizzando.
Ci sono formati o tecniche che prediligi?
Negli ultimi dieci anni sto lavorando in verticale.
La tua è una pittura lenta o veloce?
Come tutte le cose, segue un andamento vitale.
Lavori in studio?
Sì.
Come definiresti la tua pittura?
Una scrittura di colori.
Cosa significa fare pittura oggi?
Esattamente quello che ha sempre significato. Il pittore dipinge dei quadri e li vende, poi ne dipinge di altri.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Ne penso molto bene, ci sono tanti artisti con le idee chiare e un lavoro strutturato.
‒ Damiano Gullì