Pittura lingua viva. Parola a Viola Leddi

Viva, morta o X? 69esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.

Viola Leddi (Milano, 1993) vive e lavora tra Milano e Ginevra, dove frequenta il corso di Work.Master presso la HEAD. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera con Erasmus presso la Scuola di Arti Visive della Kongelige Danske Kunstakademi, Copenhagen. Le sue ultime mostre e partecipazioni includono: Sonnenstube, Lugano; workshop Q-Rated: Pittura, Nuoro; TILE Project Space, Milano, e ADA Project, Roma. Nel 2017 ha co-fondato il progetto di ricerca Altalena, attivo nell’organizzazione di residenze e nella pubblicazione di libri d’artista.

Come ti sei avvicinata alla pittura?
Ho cominciato a prendere in considerazione la pittura solo quando mi sono trasferita per un anno a Copenaghen come exchange student nel 2014. Prima di quel momento non ero mai riuscita a ritagliarmi quegli spazi ‒ fisici e mentali ‒ necessari per dipingere; ciò che facevo nelle anguste aule di Brera era disegnare molto ed esplorare caoticamente altri linguaggi. La Royal Danish Academy è una scuola enorme, con atelier meravigliosi e molto spazio per lavorare. Nel dipartimento di pittura, poi, gli studenti dipingevano sul serio: il confronto con insegnanti e con i compagni di corso è stato molto fruttuoso e mi ha aperto gli occhi sulle potenzialità di questo medium.

Quali sono i maestri e gli artisti cui guardi?
A essere sincera, preferirei non usare l’espressione “maestri”: trovo sia una categoria riduttiva che esclude una parte di umanità che, per motivi diversi, non è mai rientrata nei parametri della storicizzazione dell’arte. Anche se mi interessano le iconografie cliché, quelle iconiche e iperdiffuse nell’immaginario comune occidentale, in ugual modo mi attraggono altri tipi di immagini che possono arricchire un’immagine “già vista”, o anche offrirci una via di fuga da questa. Amo attingere materiale anche da testi poco conosciuti, da copertine di libri, da film, da opere minori, da buffi reperti archeologici che scovo durante le visite ai musei… Cerco di costruirmi un caleidoscopico range di particolarità in cui intravedo ‒ o su cui proietto arbitrariamente ‒ degli elementi che rimandano al mio presente.

Quanto contano quindi la ricerca iconografica e lo studio della storia dell’arte nella scelta dei soggetti e definizione delle tue composizioni? Riprendi stili e canoni della tradizione per stravolgerli…
Ho la sensazione, nonché il terribile sospetto, che la ricerca iconografica in un certo senso coincida con uno sforzo di legittimare una mia personale presa di coscienza della storia della rappresentazione pittorica. In parole semplici, credo di poter ammettere che finora non sia stata troppo entusiasta all’idea di sviluppare un discorso pittorico tutto mio, o almeno di non essere riuscita a farlo senza aver prima trovato una sorta di giustificazione per dipingere liberamente. Temo di aver sempre avuto bisogno di un escamotage, di un compromesso, per potermi immergere in un linguaggio oggi così difficile e delicato, eppure così ricco e denso, come quello della pittura. D’altra parte, operazioni come quelle della citazione e del recupero di iconografie sono molto utili per osservare le derive stilistiche e riflettere sui rapporti che legano forma e significato.

Viola Leddi, Mimic, 2017, oil on canvas, 120 x 150 cm

Viola Leddi, Mimic, 2017, oil on canvas, 120 x 150 cm

E perché affidarsi a un linguaggio prevalentemente figurativo? Quando finisce la figurazione e inizia l’astrazione?
Dipende da cosa intendi con astrazione. Credo che per me il confine sia molto labile. Posso raccontarti di essermi interessata alla (diciamo) pittura figurativa probabilmente in relazione alla danza contemporanea, che ho praticato per diversi anni senza mai intraprendere la formazione professionale. Credo che un certo tipo di indagine sul corpo abbia influenzato la mia pratica nelle arti visive, portandomi a immaginare, studiare e a disegnare dei soggetti che veicolassero una sensazione tattile e una forma di intelligenza corporea. Considero l’astrazione strettamente pertinente ai sensi e al linguaggio del corpo: la concepisco cioè come una percezione molto fisica, quasi carnale, che ha a che fare anche con l’empatia e con la capacità di animare l’inorganico, di proiettare vita sull’inanimato. La vedo in antitesi, quindi, con un’idea di spiritualità cui molti movimenti astratti hanno fatto e fanno tuttora riferimento. Credo che questo discorso accomuni tanto un certo tipo di astrattismo quanto molta arte figurativa, perché si tratta di un processo di idealizzazione, di trasporto in altre realtà sensoriali. Mi piace pensare che nei miei lavori l’astrazione corrisponda a una proiezione in altri mondi, in fantasticherie intime e sensuali che, infine, nessuna configurazione pittorica può mai esaurire del tutto.

Affermi di non ritenerti una pittrice ma una disegnatrice. Che ruolo ha il disegno nella tua pratica e in relazione alle tue opere?
Il disegno nella mia pratica corrisponde all’ideazione: è il culmine di un processo di elaborazione di linguaggi formali e immagini che seleziono e assimilo come potenziali referenze. Di recente ho cominciato a trasferire i miei disegni in digitale, scannerizzandoli e rielaborandoli sul computer, perché ho l’impressione che lo schermo mi aiuti ad avere una visione più lucida sul risultato finale del mio lavoro. Quando decido di riportarli sulla tela, li ricalco proiettandoli della grandezza che desidero. Trovo divertente che l’ossatura principale del lavoro, il disegno finito, sia solo virtuale: ha l’aria di un imbranato tentativo di fuga da quella concezione di materialità, originalità e fisicità da sempre legata ai generi artistici più “tradizionali” come la pittura. D’altra parte, non riuscirei a lavorare esclusivamente con la tecnologia: vorrei conservare nei miei lavori quella sensazione di “calore” caratteristica delle produzioni manuali.

Un approccio analogo è anche nella scultura. Come dialoga con la pittura? In base a cosa senti l’esigenza di lavorare sulla bidimensionalità piuttosto che sulla tridimensionalità?
La scultura è, detto semplicemente, un altro modo di far dialogare i miei soggetti con lo spazio. Mi permette di variare nella materialità e nella percezione di ciò che rappresento anche in pittura, rendendo le mie fantasie forse più reali, più immanenti. Se una forma mi incuriosisce, e noto che potrei svilupparla in tre dimensioni, provo a modellarla. Anche in questo caso ci tengo alla manualità, e la ceramica rimane per ora il mio materiale preferito in assoluto.

Viola Leddi, I Dreamed Of A Dark Night, 2016, 7 components, glazed ceramic, variable dimensions. Photo t-space, Milano

Viola Leddi, I Dreamed Of A Dark Night, 2016, 7 components, glazed ceramic, variable dimensions. Photo t-space, Milano

Chi sono le “creature adorabili” che raffiguri?
Le creature adorabili sono le vittime e i carnefici di un modo di concepire i corpi (non solo femminili) proprio di un retaggio patriarcale e capitalistico. Sono carine e desiderabili perché incarnano uno sguardo astratto che le rende perfette consumiste e contemporaneamente le oggettifica, definendo per loro un modo di essere e di volere. Sono dispositivi di perpetuazione di un modello di rappresentazione e di configurazione di quell’insieme di concetti che abbiamo sempre definito “il femminile”, che la nostra cultura ha categorizzato e incasellato per aggirarne l’alterità. Prediligo la figura della fanciulla non solo perché l’adolescenza è un periodo della vita definito da un intenso consumo con la realtà capitalistica e sociale. Mi interessa il periodo della pubertà femminile perché nelle narrazioni popolari o nelle fiabe corrisponde a un momento critico, problematico a livello collettivo: l’insorgere della sessualità della donna è sempre stato considerato, nella cultura europea, come un fenomeno che era necessario contenere e controllare. Se dunque le mie creature adorabili sono in atteggiamento passivo verso tutto ciò che le circonda, e non cercano emancipazione, tento sempre in un qualche modo di deformarle per suggerire una tensione, una crudeltà, un’inquietudine, spesso sforando nel kitsch e in un patetismo di stampo esistenzialista.

Cosa rappresenta per te la natura?
Senza dubbio, so che non cerco di dipingerla. In un certo senso, i miei dipinti sono idealizzazioni: la natura è re-immaginata, artificializzata, ma anche gli elementi meno naturali ricordano spesso forme organiche. Non potrei mai fare qualcosa che si avvicini anche di poco al realismo, io credo. Nonostante i miei lavori suggeriscano una volontà sostanzialmente escapista dalla realtà, tento di dirigere il mio sforzo verso un immaginario potenziale e costruttivo, non regressivo. Spesso i miei lavori sono interamente rosa per evocare l’elasticità e la morbidezza della pelle e perché l’habitat che realizzo diventi un unico e disomogeneo corpo.

Il corpo, appunto. Stai portando avanti una riflessione sul corpo umano, in particolare femminile, come si diceva, affrontandone stereotipi e simbologie. Da cosa nasce questa urgenza? Come, nel tempo, il tuo lavoro si è trasformato? 
È una necessità che ho sentito nel rendermi conto del momento storico in cui ho vissuto io da piccola, l’Italia di Berlusconi, le Veline in TV e la Milano a cavallo tra gli Anni Novanta e i Duemila. Le ragazzine come me vivevano immerse in un ambiente sessista e in un clima culturale colpito da una regressione agghiacciante senza spesso guadagnarsi una forma di consapevolezza, magari per assenza di strumenti e di una sana istruzione. Credo che la strada che ultimamente ha preso il mio lavoro derivi anche da una volontà personale di elaborare quegli anni.

Viola Leddi, Preparatory sketch for the painting “Capricci”, 2018, acrylic on paper, 33 x 24 cm

Viola Leddi, Preparatory sketch for the painting “Capricci”, 2018, acrylic on paper, 33 x 24 cm

Come raccontare, o far emergere, la sessualità in un dipinto?
Non so se si può chiamare sessualità quella che cerco di far affiorare. È più un avvilupparsi di desideri, sogni, paure, affetto, odio, vergogna e così via. Credo comunque che sia necessario lasciarsi un po’ andare nella fase iniziale di disegno. È un momento caotico e molto delicato, in cui si è insieme molto vigili e molto ignari.

Lavori con una ristretta tavolozza di colori e porti avanti un processo di semplificazione formale. Da cosa deriva questo approccio, diciamo, minimalista?
Cerco di non produrre rumore, di concentrarmi sullo stretto necessario perché tento di evitare sia un certo tipo di espressionismo sia il virtuosismo pittorico. Le cose necessarie da comunicare sono sempre poche: tento di asciugare le parti in eccesso perché il lavoro riesca a parlare. Non rigetto però un certo gusto ornamentale, anzi lo apprezzo molto e può essere molto funzionale se ben studiato e bilanciato. Come conseguenza di questo mio atteggiamento generale, inevitabilmente la mia produzione finisce per essere molto ristretta. Lavoro poco, ma perché scarto molto.

Quanto conta la tecnica in questo?
Non ho mai pensato veramente alla tecnica come a un baluardo necessario. Non ho mai amato, per esempio, buttarmi nel caos della sperimentazione tecnica per raggiungere un’abilità; anzi, è un’attitudine che mi mette molta ansia. Quando mi interrogo su come realizzare un determinato dettaglio, se mai procedo al contrario, inventandomi sul momento un modo per renderlo esattamente come me lo immagino. Poi il risultato è sempre diversissimo, deludente quasi, ma è ovvio. La mia opinione è che solo sforzandosi può uscire fuori “quel qualcosa”.

Ci sono formati o tecniche che prediligi?
I disegni preparatori sono rigorosamente in A5, non posso farli più grandi altrimenti mi perdo nel foglio. Le dimensioni che ho utilizzato finora per i dipinti sono diverse, dipendono dal progetto che ho in mente. Non mi piace però usare formati standard, altrimenti lavorarci diventerebbe noioso: faccio sempre costruire telai su misura. In quanto ai materiali, per ora ho usato sempre olio, acrilico e tela di cotone grezza. Ma è possibile che in futuro esplorerò altri mezzi.

La tua è una pittura lenta o veloce?
Lentissima, troppo lenta. Non per scelta: sono lenta di natura in tutto quello che faccio.

Lavori in studio?
Certo, non potrei lavorare altrimenti. Ho bisogno di isolamento e di uno spazio fisico grande almeno quanto serve per intelaiare. Sono stata fortunata con gli atelier: fino a qualche mese fa ho occupato gratuitamente una stanzina sopra lo studio di mio nonno, in via Canonica a Milano. Ora invece il mio spazio di lavoro è a Ginevra, all’interno della HEAD, dove da quest’anno sono iscritta al Work.Master.

Viola Leddi, Sleepless Girl, 2018 19, 2 components, ceramic, raw clay, wood, plastic, steel, mortar, approx. 41 x 36 x 125 cm and 23 x 11 x 9 cm. Photo siliqoon agency

Viola Leddi, Sleepless Girl, 2018 19, 2 components, ceramic, raw clay, wood, plastic, steel, mortar, approx. 41 x 36 x 125 cm and 23 x 11 x 9 cm. Photo siliqoon agency

Come nascono i titoli delle tue opere?
Di solito mi sorgono in testa da soli, in qualche occasione me li sogno. Poi cerco su internet se esistono già o se le parole che ho scelto hanno significato diverso da quello che ho inteso io.

Anche i riferimenti alle fiabe e alla fantascienza hanno un preciso significato nel tuo lavoro…
Sono espressioni di un immaginario collettivo, uno ci riporta nel passato e l’altro ci proietta nel futuro. Entrambi servono a parlare indirettamente di condizioni e di relazioni umane ancora presenti, sebbene in modo diverso.

Quanto la musica, il cinema, la letteratura in generale influiscono sui tuoi lavori e sulla tua poetica?
In generale, ma credo che questo valga per chiunque lavori nell’arte, sono fonte di ispirazione e influiscono ognuna in modo molto diverso nel processo creativo. La letteratura e il cinema mi fanno scoprire immagini, personaggi e identità intriganti. Di musica, invece, non ne ascolto molta; in studio preferisco la radio, gli audiolibri o podcast di vario genere.

Cosa significa fare pittura oggi?
Mi rendo conto che dipingere ha bisogno di un certo tipo di contemplazione e di attenzione che oggi è difficile far proprie, o cui non tutti gli artisti si sentono affini. Io stessa non credo di essere mai riuscita a instaurare un dialogo profondo con la materialità del medium, o con quella forma di jouissance riferibile alla trascinante disinvoltura del muovere il pennello sulla tela. In un certo senso dipingere non mi diverte, lo trovo anzi molto difficile e faticoso. È forse per questa mia incapacità o insicurezza che nel processo creativo ripiego su un appoggio tecnologico, lavorando sui miei disegni in digitale. Alternare da reali a virtuali i punti di vista sul mio lavoro è una valida tutela contro il terrore di quel caos vischioso che si spreme fuori dai tubetti.

Damiano Gullì

LE PUNTATE PRECEDENTI

Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
Pittura lingua viva#12 ‒ Marta Mancini
Pittura lingua viva #13 ‒ Francesco Lauretta
Pittura lingua viva #14 ‒ Gianluca Di Pasquale
Pittura lingua viva #15 ‒ Beatrice Meoni
Pittura lingua viva #16 ‒ Marta Sforni
Pittura lingua viva #17 ‒ Romina Bassu
Pittura lingua viva #18 ‒ Giulio Frigo
Pittura lingua viva #19 ‒ Vera Portatadino
Pittura lingua viva #20 ‒ Guglielmo Castelli
Pittura lingua viva #21 ‒ Riccardo Baruzzi
Pittura lingua viva #22 ‒ Gianni Politi
Pittura lingua viva #23 ‒ Sofia Silva
Pittura lingua viva #24 ‒ Thomas Berra
Pittura lingua viva #25 ‒ Giulio Saverio Rossi
Pittura lingua viva #26 ‒ Alessandro Scarabello
Pittura lingua viva #27 ‒ Marco Bongiorni
Pittura lingua viva #28 ‒ Pesce Kethe
Pittura lingua viva #29 ‒ Manuele Cerutti
Pittura lingua viva #30 ‒ Jacopo Casadei
Pittura lingua viva #31 ‒ Gianluca Capozzi
Pittura lingua viva #32 ‒ Alessandra Mancini
Pittura lingua viva #33 ‒ Rudy Cremonini
Pittura lingua viva #34 ‒ Nazzarena Poli Maramotti
Pittura lingua viva #35 – Vincenzo Ferrara
Pittura lingua viva #36 – Luca Bertolo
Pittura lingua viva #37 – Alice Visentin
Pittura lingua viva #38 – Thomas Braida
Pittura lingua viva #39 – Andrea Carpita
Pittura lingua viva #40 – Valerio Nicolai
Pittura lingua viva #41 – Maurizio Bongiovanni
Pittura lingua viva #42 – Elisa Filomena
Pittura lingua viva #43 – Marta Spagnoli
Pittura lingua viva #44 – Lorenzo Di Lucido
Pittura lingua viva #45 – Davide Serpetti
Pittura lingua viva #46 – Michele Bubacco
Pittura lingua viva #47 – Alessandro Fogo
Pittura lingua viva #48 – Enrico Tealdi
Pittura lingua viva #49 – Speciale OPENWORK
Pittura lingua viva #50 – Bea Bonafini
Pittura lingua viva #51 – Giuseppe Adamo
Pittura lingua viva #52 – Speciale OPENWORK (II)
Pittura lingua viva #53 ‒ Chrysanthos Christodoulou 
Pittura lingua viva #54 – Amedeo Polazzo
Pittura lingua viva #55 – Ettore Pinelli
Pittura lingua viva #56 – Stanislao Di Giugno
Pittura lingua viva #57 – Andrea Barzaghi
Pittura lingua viva #58 – Francesco De Grandi
Pittura lingua viva #59 – Enne Boi
Pittura lingua viva #60 – Alessandro Giannì
Pittura lingua viva #61‒ Elena Ricci
Pittura lingua viva #62 – Marta Ravasi
Pittura lingua viva #63 – Maddalena Tesser
Pittura lingua viva #64 – Luigi Presicce
Pittura lingua viva #65 – Alessandro Sarra
Pittura lingua viva #66 – Fabio Marullo
Pittura lingua viva #67 – Oscar Giaconia
Pittura lingua viva #68 – Andrea Martinucci

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Damiano Gullì

Damiano Gullì

Damiano Gullì (Fidenza, 1979) vive a Milano. I suoi ambiti di ricerca sono l’arte contemporanea e il design. Da aprile 2022 è curatore per l'Arte contemporanea e il Public Program di Triennale Milano. Dal 2020 è stato Head Curator del…

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