Pittura lingua viva. Parola a Guglielmo Castelli

Viva, morta o X? Ventesimo appuntamento con la nuova rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.

Guglielmo Castelli (Torino, 1987) vive e lavora nella sua città di origine, dove ha studiato scenografia teatrale all’Accademia Albertina. Tra le sue mostre: Goodmorning Bambino, Kunstlerhaus Bethanien, Berlino, 2018; Recto/Verso 2, Fondation Louis Vuitton, Parigi, 2018; Painting is an illusion, a piece of magic, so what you see is not what you see, Zink Gallery, Bruxelles, 2018; A Strong Desire, PS120 Gallery, Berlino, 2018; Biennale International d’Art Contemporain De Melle, 2018; Challenging Beauty. Insights into Italian Contemporary Art, Parkview Museum, Singapore, 2018; Disegni, Artissima, Torino, 2017; Asomatognosia, Sala Reale Stazione Porta Nuova, Torino, 2017. Nel 2016 il magazine statunitense Forbes lo ha inserito fra i trenta artisti visivi sotto i trent’anni più influenti d’Europa.

Come ti sei avvicinato alla pittura?
Prima della pittura c’è stato il disegno e prima del disegno gli spazi da riempire. La potenza della narrazione, visionaria e silenziosa. Il disegno, prima, e la pittura, dopo, mi davano l’idea che potessero in qualche modo comprendere, “accettare” la melanconia ed ergerla a spazio scenico, a possibilità. Si è più “chirurghi” nella giovane mano che in età adulta, dopo arriva la tecnica, ma prima, prima vi è un sezionare diverso, ciò che ancora non si comprende, ma si sente. Le forme che si danno sono libere, scevre da ogni coinvolgimento, titubanza tecnica o un reiterare funzionale.
Così si disegnano arcobaleni che potrebbero stare in una composizione di Auerbach o personaggi degni del più puro Cocteau. Questa è stata ed è per me la pittura: un “Lessico famigliare”.

Chi sono i maestri o gli artisti cui guardi?
Nella mia bulimia creativa spazio molto. Nella pittura guardo spesso ai silenzi di Balthus, alle prime nevi di Bruegel, ai modi gentili di Serusier, agli addii accennati di Léon Spilliaert, alle ombre blu di Prussia di Vuillard e ai macro di Domenico Gnoli. Fra i più contemporanei ci sono Louis Burgeois, Berlinde De Bruyckere e Anna Uddenberg. Insomma, un caleidoscopio di azioni in estetica perfetta.

Quanto ha inciso la formazione di scenografo sul tuo lavoro?
La formazione da scenografo mi si è ripresentata molto tardi. All’inizio la scenografia l’avevo scelta per formazione culturale più che come un mezzo che potesse servirmi in pittura. Poi, negli ultimi due anni, prima della mia esperienza a Berlino, ho ripensato a tutti loro, a quelli che mi hanno tenuto compagnia e mi hanno fatto pensare lontano. Così sono tornati Pina Bausch, Jerzy Grotowski, Henrik Ibsen… Per la prima volta ho trattato il corpo umano come fosse paesaggio stesso. Un prolungamento di quell’ambiente circostante in cui è immerso il corpo.
Nelle opere precedenti alla mia residenza tedesca il fondo supportava la narrazione, avendo una funzione puramente di contesto. Ho cercato di espandere quel fondo, facendolo “esplodere” e la narrazione si è amplificata anche sui corpi. Così i corpi stessi sono diventati una somma di paesaggi, di piccoli discioglienti, di frazioni di un divenire, togliere per aggiungere. Lo spazio e il corpo in questa nuova veste hanno creato delle stanze dentro le stanze. Questo è per me ora la scenografia: un corpo in funzione di divenire.

Guglielmo Castelli, Cano, 2018. Photo Johan Österholm

Guglielmo Castelli, Cano, 2018. Photo Johan Österholm

E la moda, l’illustrazione?
La mia matita si è temprata e temperata fra gli spazi di libri per l’infanzia prima, e in Vogue Italia dopo. Sono state esperienze meravigliose. Non servivano le parole ma solo il Bello inteso come intenzione di rappresentazione dell’intenzione. La mia esperienza da scenografo, in realtà, è stata di breve durata e di non particolare rilievo né in me né tantomeno negli altri. I ricordi che valgono sono quelli della sartoria, del tocco di crinoline e panier con le stecche di balena, i verdugali, la differenza fra una crêpe e un taffetà di seta. La moda, forse più di altri aspetti socioculturali, è riuscita con velocità e prontezza a rappresentare i tempi contemporanei delle varie epoche, dando un ventaglio di incredibili possibilità e libertà. E allora non posso non amare le proporzioni apparentemente sbagliate di Rei Kawakubo e pensare a Ernesto Neto, o ai bustini di Azzedine Alaïa e non vedere sculture di Brancusi.

Cosa rappresenta il disegno per te?
È stato il primo “errore” che mi sono concesso, la prima “constatazione amichevole”. Il disegno è un errore di pensiero, un’interruzione sulla strada principale. Un’inversione di marcia… Il disegno è tutto. Nel disegno vi è tutta la potenza di un gesto che inizia ma non dovrebbe finire, ma rimane in quelle linee. In realtà continua dopo, dove non si vede, dove apparentemente non vi è nulla. A volte si cerca di trasporre un disegno su tela per farlo diventare dipinto, ma lui si rifiuta, e tu capisci che deve rimanere disegno altrimenti ne perderebbe di potenza. Guido Bassani scrisse: “Cara Jenny, per disegnare bene, bisogna essere molto cattivi, ricordatelo. Bisogna smontare il mondo, per ricostruirlo poi pezzo a pezzo, con infinita pazienza”.

Chi sono le figure che popolano i tuoi quadri? Perché nella maggior parte dei casi non sono riconoscibili?
Sono corpi più che figure, sono agglomerati di materia cromatica (o di rimozione cromatica, dipende dai casi). Per anni dipingevo tutto il corpo in queste posizioni precarie, anatomicamente sbagliate, come fossero corpi pieni di acqua, spossati, accasciati, ma ben presenti a loro stessi… Poi gli rimuovevo il viso per troppo pudore o per semplice inesperienza. Oggi il viso c’è, quindi in qualche modo sono diventati grandi anche loro, come me.

E la presenza di animali nelle composizioni che significato assume? Metaforico?
La rappresentazione degli animali che a volte popolano i miei quadri, sì, assume un significato metaforico, simbolico, un legame con tutta quella rappresentazione rinascimentale dove l’inserimento di animali, frutta o elementi decorativi aveva una doppia valenza: estetica e, per l’appunto, simbolica.

Come nascono i titoli delle tue opere?
I titoli delle mie opere nascono principalmente dalla letteratura, che siano grandi classici o letteratura contemporanea. È il gioco della creazione dell’immagine prima o dopo la parola, di come un titolo possa aggiungere significato o un accento di visione.

Guglielmo Castelli, About today, 2019

Guglielmo Castelli, About today, 2019

Come si è evoluto negli anni il rapporto figura/ sfondo nei tuoi lavori?
Ho sempre cercato di investigare non tanto quello che stava accadendo nella rappresentazione stessa del quadro, ma quello che vi era intorno, l’attimo prima e l’attimo subito dopo. In questo spazio di attesa, in questo fuso orario intenzionale vi è la pittura. La dicotomia è il risultato dell’incertezza beckettiana che pone il dubbio e il tentativo come materia primaria dell’atto stesso. Così, soprattutto nell’ultima produzione, la rappresentazione della figura umana non è più di centrale importanza, ma si è sviluppata parallelamente a quello che è inteso come spazio intorno, facendo diventare i corpi paesaggi stessi, liquefacendo la superficie e le proporzioni, spostando i contorni, trasponendo il dentro/fuori come condizione non solo visiva, ma come volontà estraniante. L’ambiente privato, rappresentato più che come spazio fisico, lo identifico come una porzione di tempo. Quando studiavo scenografia teatrale uno dei primi quesiti da porsi era: che cosa vogliamo che lo spettatore veda? Quello che vi è in scena? Quello che sta per accadere? Quanto non detto vi deve essere perché lo spazio possa creare altro spazio. In questo spazio non descritto vi è la pittura.

Perché la scelta della figurazione?
Perché per me esiste solo la figurazione. Devo riconoscermi in essa. Per perdermi dentro la pittura devo prima addomesticarla. E l’addomesticamento, per me, avviene tramite una figurazione. In musica il termine figurazione intende un insieme di motivi ritmici e melodici che arricchiscono una melodia. Parto dalla figurazione per poi perderla nel percorso per riuscire a crearne un’altra, una sorta di trasposizione genetica errata.

Figurazione e astrazione: quando finisce una e inizia l’altra?
Ho cercato di pormi la domanda di che cosa volesse dire essere un pittore figurativo, e di come la figurazione potesse diventare più astratta. Ma come farlo? Allontanandomi dalla tela, in quello spazio fisico e di tempo che si andava a creare ho trovato ciò che stavo cercando, il quadro stesso. In quello spazio, quello che prima era “solo” tecnica si è espanso, dandomi la possibilità di immergermi in una dimensione che non era solo più fatta di una ricerca compositiva, ma spaziale.
La tela è per me campo di rappresentazione, non tanto di quello che posso comporre, ma di una narrazione che sta intorno alla rappresentazione stessa. Sono da sempre interessato a quelle parti in ombra, per quegli attimi melanconici subito prima o subito dopo le cose che accadono. Perché la melanconia non è stadio patologico, appartiene a tutti. Le ultime opere rappresentano un inizio di storie, di narrazione con un orgoglioso legame alla storia dell’arte italiana o alla pittura francese di inizio secolo. L’aspetto performativo, che a lavoro finito ne è nato, nell’ultimo periodo mi ha molto attirato. Questo non so dove mi porterà, ma sicuramente mi ha dato la possibilità di pormi nuove domande. Il limite che delinea la figurazione dall’astrazione è labile, non vi è astrazione se prima non c’è stata figurazione, una sottrazione per addizione. Citando Pirandello nel suo Così è se vi pare: “Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede”.

Guglielmo Castelli, A catalogue of mornings, 2019

Guglielmo Castelli, A catalogue of mornings, 2019

I toni cupi, le pose delle figure denunciano una malinconia più o meno latente. Dicevi prima che la malinconia appartiene a tutti e tu stesso sei interessato agli “attimi malinconici”. Cosa rappresenta quindi per te la malinconia?
Mi chiedo spesso che cosa rimanga di noi quando si va via da un luogo, forse alla fine è proprio quello spazio che viene lasciato che tento di rappresentare. Una forma alternativa di assenza. “L’altra parte delle cose” è sempre relativa, soprattutto per un pittore. Se metti vicino l’arancione e il blu, data la loro complementarietà, l’occhio lo leggerà come un notturno con una fonte di luce. Ma in mezzo al resto del buio che cosa c’è? Ecco, mi piace pensare che lo spettatore, guardando quelle figure, in quegli spazi, ne possa creare altri dove apparentemente non vi è nulla, dove apparentemente qualcun altro se n’è andato lasciando il niente. Questo senso di pieni e di vuoti in un tutt’uno è per me la malinconia.

E il sogno?
Devo dire che il sogno, inteso come rappresentazione di mondi onirici, di un momento al di fuori della “realtà”, non mi ha mai interessato. Per il presente ci vuole presenza, ed essere ben svegli.

Si può leggere anche una qualche forma di sensualità/sessualità sottesa alle tue composizioni?
Le composizioni che cerco di rappresentare hanno soffi sensuali con uno sguardo a una sessualità, seppur acerba. Sono posture che si mescolano fra loro, che lasciano intendere dei legami, degli accostamenti di carne. Ci si conosce toccandosi, guardandosi, passandosi vicino. Quell’aria piena di elettricità che intercorre fra i corpi: il riuscire a rappresentarla è cosa ardua, ma incantevole.

Quali sono le tue fonti di ispirazione? Prima accennavi a quelle letterarie per i titoli delle tue opere…
Diciamo che se dovessi, in silenzio, a uno sconosciuto, presentarmi solo con degli oggetti, dei suoni e delle immagini, credo sarebbero: Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, Eva contro Eva di Joseph Mankiewicz, le note di uno Stabat Mater di Pergolesi e “quei due pupazzi fatti col sapone” nella scena finale de Il buio oltre la siepe diretto da Robert Mulligan.

Hai tecniche o formati che prediligi?
Nel 2014, alla fine della mia residenza al Macro di Roma, lasciai l’acrilico e iniziai con l’olio e mi si aprì un mondo. A oggi l’olio continua a dare grandi risultati, materia viva, ma sto sperimentando anche altre tecniche, mescolando fra loro cose apparentemente non accostabili.

Pittura nel campo allargato… Nella tua recente mostra Goodmorning Bambino hai forzato i limiti del supporto per creare delle quinte, un ambiente percorribile e avvolgente. Come sei arrivato a questo?
L’allestimento della mia ultima personale a fine residenza presso la Kunsterhaus Bethanien di Berlino mi ha fatto guardare un po’ oltre, l’allestire le tele come fossero quinte teatrali, la volontà di trasporre in maniera pressoché identica quello che vi era nel mio studio… Le grandi tele si muovono, si spostano, lasciando intravedere altre opere, svelando particolari o coprendoli, così come faccio nella pittura. Sciolgo e riformulo dal discioglimento stesso. La tela come palcoscenico, silenziosi ingombri, figure troppo grandi per spazi troppo piccoli. Così lo spettatore può scegliere di entrare o meno in quello spazio. Stanze dentro le stanze… Da questa mostra ho cercato di guardare oltre, espandendo la pittura, cercando un’alchimia di quello che vorrei potesse essere figurativo, ma al contempo astratto. Non vi è forma senza caos. Non sempre il sapere navigare verso qualcosa di certo implica un luogo migliore.

Guglielmo Castelli

Guglielmo Castelli

Continuerai quindi a “espandere” il campo della tua pittura?  
Assolutamente sì, la volontà è proprio quella di capire come espandere la pittura al di là della superficie cui è legata, una sorta di scomposizione plurima della pittura stessa. Pennellate che diventano altro per tornare a essere tali…Vorrei far dialogare di più disegno e tela.

Perché fare pittura oggi?
Perché, per quanto mi riguarda, non so fare altro, perché la pittura si fa con la pittura. È un dono, una responsabilità, un dovere.

Nel 2016 sei stato inserito da Forbes tra i dieci under 30 europei più influenti nell’arte. Come hai vissuto questo riconoscimento? Cosa pensi, in generale, della ricezione dell’arte contemporanea italiana in ambito internazionale e, in particolare, della scena della pittura?
Nel gennaio 2016 mi inserirono nella lista 30Under30 Europe, e ne sono ancora oggi, dal profondo del cuore, riconoscente. Fu un anno incredibile, quasi surreale… Lo vissi in maniera, per così dire, torinese: lavorai ancora di più in studio, in silenzio, perché dentro di me sentivo, in una certa misura, di dover dimostrare che mi ero guadagnato quel posto in quella lista. Per quanto riguarda la ricezione dell’arte contemporanea italiana in ambito internazionale, ci sono tanti artisti italiani che si sono affacciati al di là del nostro Paese con ottimi risultati. Continuo a pensare che a volte, in Italia, siamo troppo esterofili tralasciando la cura e l’accrescimento degli artisti italiani stessi, quelli delle nuove generazioni più che quelli storicizzati. La pittura in Italia: credo stia vivendo un bel momento, un momento di reale coinvolgimento e analisi su se stessa, con artisti visionari e di grande conoscenza pittorica, penso a Riccardo Baruzzi, Matteo Fato, Alessandro Scarabello, Thomas Braida, Patrizio Di Massimo, Nazzarena Maramotti, Giulio Saverio Rossi, per citarne alcuni…

‒ Damiano Gullì

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Damiano Gullì

Damiano Gullì

Damiano Gullì (Fidenza, 1979) vive a Milano. I suoi ambiti di ricerca sono l’arte contemporanea e il design. Da aprile 2022 è curatore per l'Arte contemporanea e il Public Program di Triennale Milano. Dal 2020 è stato Head Curator del…

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