Pittura lingua viva. Parola a Marco Bongiorni

Viva, morta o X? Ventisettesimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.

Marco Bongiorni (Garbagnate Milanese, 1981) vive e lavora a Milano. Tra le sue mostre personali: Kangal, Galleria SIX, Milano, 2017; Epitome/Head/Fear, Fondazione Rivoli2, Milano, 2014; Attemps for utopian fixity, Galleria SIX, Milano, 2013; Drawing by two, Galleria Marie Laure Fleisch, Roma, 2011. Tra le collettive: In the depth of the surface II Act, Pablo’s Birthday, New York, 2017; In the depth of the surface, Ex Fabrica Orobia, Milano, 2016; Drawing as Fighting, Ipotesi per un disegno da combattimento, DoDisturb, Palais de Tokyo, Paris, 2016; L’esprit de l’escalier, Dimora Artica, Milano, 2016; Hang it on the wall, The Workbench, Milano, 2015; Cluster, Sonnestube, Lugano, 2015; Le declinazioni della pittura, Francesco Pantaleone Arte Contemporanea, Palermo, 2015; Progetto italiano n. 3 / Azimuth ‒ Libera dimensione, The Workbench, Milano, 2015; L’artista nel sistema e il suo tempo, Castel di Ieri, L’Aquila, 2014.

Come ti sei avvicinato al disegno e alla pittura?
Grazie a mio padre. Ho imparato a disegnare con lui. Mi portava in giro a fare disegni en plein air e mi ha dato i primi strumenti per leggere il mondo attraverso il disegno. Poi ho fatto le scuole d’arte, l’accademia… Dopo il primo mese di scuola, mio padre, che è architetto, mi ha portato nel suo studio e mi ha chiesto di inchiostrargli dei cementi armati sui lucidi. Ho lavorato tutto il pomeriggio ma, al termine, mi sono accorto che la tavola era piena di ditate. Non avrei potuto fare l’architetto, ma quella tavola con le ditate aveva un senso per me. Quando ho iniziato a sporcarmi le mani e ho visto che nel processo pittorico potevano succedere cose inaspettate, ho capito che volevo fare di questo una professione. Poi c’è stata la pratica quotidiana, il disegno dal vero, ho avuto l’occasione di conoscere altri pittori e maestri… Ho capito che per fare arte avevo bisogno della pittura o, forse, avevo bisogno dell’arte per fare pittura. C’è poi una componente egoistica perché provo piacere nello stendere il colore, nel gestirlo su una superficie. Forse l’arte mi serve per soddisfare questo piacere.

E cosa rappresenta il disegno per te?
È centrale all’interno della mia pratica. Nasco come disegnatore. Come dicevo, ho quasi sempre disegnato. In maniera costante, quotidiana. Disegno tantissimo dal vero. Mi sono accorto che, col passare degli anni, ho costruito anche il mio rapporto con gli altri linguaggi utilizzando i meccanismi del disegno. Nella pittura impiego questi stessi meccanismi, ma con altri materiali e altre tecniche. La mia pittura è disegnata. Gli ultimi lavori che ho realizzato sono molto stratificati. E il disegno è un linguaggio che si stratifica, è fatto per accumulazione, un segno dopo l’altro, un movimento dopo l’altro: questo crea un’immagine. Nella mia pittura accade la stessa cosa. Non “compare” a livello di “immagine d’insieme”, ma è una pittura che si costruisce in modo stratificato, un passaggio dopo l’altro. È fatta di molti “errori”, di molti ripensamenti (termine usato in restauro e nell’attribuzione dei quadri per indicare un passaggio che è stato coperto e permette di capire il processo di costruzione dell’immagine o di riconoscere dettagli tipici dell’autore). Se guardi questi miei ultimi quadri riesci a capire il ritmo con cui sono stati strutturati. Il disegno è sempre un tracciato che ti permette di seguire il modo in cui è nato. Anche nella scultura, tipo le piccole sculture di legno che ho sempre fatto, il procedere è quello del disegno: stratifico, accumulo. Uso una colla a presa lenta. C’è un equilibrio che viene mantenuto a ogni passaggio. In qualche modo, quello che faccio è sempre disegnare, che sia con il colore o con la materia.

Marco Bongiorni, Drawing as Fighting. Ipotesi per un disegno da combattimento. DoDisturb, Palais de Tokyo, Parigi 2016. Photo credit © Romer

Marco Bongiorni, Drawing as Fighting. Ipotesi per un disegno da combattimento. DoDisturb, Palais de Tokyo, Parigi 2016. Photo credit © Romer

E disegno, pittura e pugilato come si coniugano?
Ho iniziato una decina di anni fa a praticare il pugilato in maniera amatoriale. Gli sport da combattimento in generale mi hanno sempre affascinato, ma non li avevo mai praticati prima. Mi sono innamorato di questo sport. E col tempo mi sono reso conto che esiste una relazione tra disegno e pugilato: sono due linguaggi che vivono dei loro limiti. Un ring dall’alto è un rettangolo, è un foglio, uno spazio limitato, una eterotopia in cui il pugile si muove. Il pugile ha dei limiti di tempo, di spazio, dei limiti dettati dal suo avversario e dalle sue strategie di reazione. Nel disegno, nella pittura, è lo stesso: hai dei limiti spaziali e temporali. La distanza dall’oggetto è fondamentale. Come anche nel pugilato: la prima cosa che ti insegnano quando sei al sacco è imparare a mantenere la distanza.

E così hai sviluppato Drawing as fighting
Andando in studio il pomeriggio e in palestra la sera, poco a poco ho preso consapevolezza che nei miei disegni “succedevano” delle cose che potevo relazionare con il pugilato. Ho così cominciato a inventare esercizi di disegno ispirati a quelli del pugilato: esercizi mirati ad allenare rapidità degli occhi, movimento oculare, reattività visiva agli stimoli. Ci sono delle tecniche particolari con palline da tennis, elastici… Ho iniziato a fare questi esercizi per me, poi, vedendo che avevano senso e funzionavano, ho iniziato a praticarli anche con i miei studenti, ho fatto dei workshop. Due anni fa sono stato invitato a Parigi al Palais de Tokyo con il workshop Drawing as fighting. Da circa sei anni continuo a raccogliere questi esercizi, a illustrarli e ad accompagnarli con mie riflessioni. Ne è uscito un vero e proprio manuale sperimentale di disegno, che si chiama appunto Drawing as fighting. Ne sto ultimando la stesura, sto facendo il lavoro di editing e sono ora in cerca di un editore. Vorrei fosse un prodotto dal respiro trasversale, non solo per gli addetti ai lavori.

Parlavi prima di stratificazione. Anche nella modalità in cui installi le tue opere è un elemento importante, penso, per esempio, alla tua personale da Rivoli2 a Milano del 2014. È un modo per restituire la complessità del tuo lavoro, ma anche per sintetizzare la complessità del reale. Crei una sorta di palinsesto, con più livelli di lettura…
Sì, assolutamente. Se ci pensi il disegno ha una funzione di “accumulo”, ma procede anche “a perdere”. Legge la complessità del reale ma la sintetizza, la costringe a perdere una serie d’istanze, che l’immagine reale ha, in favore di uno scheletro, di una riduzione.
Prima il mio modo di disporre avveniva in studio, in maniera naturale, poi mi sono accorto che il modo in cui io disponevo un’opera aveva una forte connessione con quello che era dentro l’opera stessa. La relazione che attivo quando la metto di fianco a un’altra, a un altro oggetto, ha una grande coesione con quello che è dentro l’opera. I pittori lo hanno sempre fatto, in realtà. Dalle icone ai grandi cicli pittorici, la gran parte della tensione che risiede nell’opera è rispetto a quello che sta al di fuori di essa. Questo è uno dei motivi per cui lavoro da alcuni anni sul format del polittico, o del dittico o del trittico. Unisco alla tela, o al disegno, un altro elemento, che può essere un altro disegno, un’altra tela, un oggetto, una fotografia, perché si generi un contatto inaspettato, che può essere narrativo o semplicemente evocativo o di contrasto. Oppure a volte anche solamente per riportare l’immagine pittorica all’oggetto pittorico. Secondo me è importante ricominciare a ragionare sul fatto che un quadro, prima di essere immagine, è un oggetto che è stato dipinto.

Marco Bongiorni, Blu Tile, 2016, olio su tela, grafite, stampa ink jet, vetro, nastro telato. Photo credit © Romer

Marco Bongiorni, Blu Tile, 2016, olio su tela, grafite, stampa ink jet, vetro, nastro telato. Photo credit © Romer

È un discorso quindi che diventa metalinguistico, analitico… Vuoi indagare limiti, funzione, significato della pittura. Vuoi analizzare il mezzo ma anche il suo supporto, le sue componenti.
Quando studiavo, disegno e pittura erano due linguaggi poco considerati. In accademia dipingere era quasi una cosa di cui vergognarsi, strana, a fronte di video e performance che godevano in quel momento di grande interesse. Ho avuto una sorta di reazione. Ho iniziato ad affrontare disegno e pittura per capire cosa ci fosse di interessante in quel linguaggio, così antico e così storicizzato – e anche così “pesante” da portarsi dietro –, che potesse essere usato in maniera originale e contemporanea. Ho cercato di lavorare sui meccanismi interni del linguaggio del disegno e della pittura. Ho cercato di capire cosa succede quando parli con quel linguaggio.

Quando dici che vuoi ricondurre il quadro al suo essere oggettuale o racconti che le tue sculture sono in realtà dei disegni, stai facendo della pittura scultura e della scultura pittura. Passi da bidimensionalità a tridimensionalità e viceversa. I confini si fanno evanescenti e la pittura contiene in nuce altro.
Faccio fatica a dire rispetto a un’opera se si tratti di pittura o di altro, poi lo devo dire perché, per certi versi, devo cercare di essere chiaro. Per me, disegno, scultura, oggetti scultorei hanno una fortissima relazione tra di loro. Sto cercando di farlo capire anche a livello installativo. La grande installazione da Rivoli2, che citavi prima era un’installazione di questo tipo. Conteneva disegno, pittura, scultura, relazionati in modo tale che potessero essere letti come elementi distinti o come una immagine completa. M’immaginavo una sorta di grande affresco fatto con elementi differenti e che potesse essere visto nella sua totalità. Nella personale del 2017 Kangal alla Galleria Six di Milano ho presentato una serie di quadri dipinti impiegando strumenti/impedimenti ottici deformanti costruiti da me – realizzati con l’aiuto di lenti di ingrandimento, isolatori ottici, specchi, maschere subacquee, occhiali e visori VR – strumenti che, per esempio, consentivano diverse modalità di messa a fuoco o scomponevano le immagini. Questa pratica che mi sono autoimposto, correlata agli esercizi di pugilato di cui parlavo prima, mi serviva per mandare in crisi il processo con cui costruisco l’immagine.

Perché mandare in crisi questo processo?
Perché fin da ragazzo mi sono reso conto che disegno e pittura hanno la necessità di andare nella direzione verso cui naturalmente spingono. Mandare in crisi il progetto mi permette di non rimanere incastrato in qualcosa di già scritto. Usare questi impedimenti ottici obbliga a ripensare forma e tracciato in una maniera strettamente correlata al momento. Perdi la distanza, la devi riprendere.

Marco Bongiorni, Rags + Assad, SLPFL detail view. Photo credit © Romer

Marco Bongiorni, Rags + Assad, SLPFL detail view. Photo credit © Romer

E ti fa così guardare da un punto di vista diverso il quotidiano. D’altra parte, la prospettiva è una “costruzione”, una forma simbolica. Non è l’unica, o più adatta/corretta, modalità per “leggere” o rappresentare la realtà.
In questo momento storico abbiamo il dovere, da artisti, da pittori, di mettere in crisi l’immagine che ci viene data. Questo significa prendere coscienza del fatto che guardare è un processo attivo. Nel momento storico di oggi le immagini che “subiamo” in continuazione devono essere mandate in crisi, ripensate. Le nature morte che ho esposto in Kangal sono sviluppate a partire da pochi elementi: ortensie secche, mezzi limoni, stracci… Ho iniziato a sentire il bisogno di dipingere dal vero. Ne è uscita una serie di piccole nature morte, dipinte col filtro dei visori da me inventati. Pian piano, nel realizzare queste nature morte, ho maturato la consapevolezza del grande peso ‒ che da un lato è una responsabilità, dall’altro una grande forza ‒che hanno il disegno e la pittura dal vero, che ha il guardare dal vero. Mi è poi successa una cosa curiosa. Avevo dipinto una tela e la stavo guardando appesa: c’era qualcosa che mi piaceva tantissimo e qualcosa che non mi convinceva del tutto. A un certo punto squilla il telefono e, per rispondere, appoggio sopra alla tela un vetrino con una piccola fotografia di Putin con il fucile, sui cui avevo disegnato e che avevo poi incorniciato. Finita la telefonata ho capito che quello era il suo posto.

Cosa c’entrava Putin con un limone secco?
Me lo sono chiesto anch’io. Questo mi ha mandato in tilt. Per giorni ho continuato a dipingere e a trovare foto di “presidenti a vita”, “president for life”, dittatori. Le chiudevo nei vetrini e provano a giustapporle. Entrambe le immagini, la natura morta e l’effige del dittatore, hanno un grado di inesorabilità. Inoltre, tutte e due nella traduzione inglese contengono la parola “life” (“still life” e “for life”). Sono due ragionamenti sulla grevità della morte e sulla questione del tempo. Il dittatore vuole eliminare la temporalità della sua carica, la natura morta nasce come strumento per riflettere sul tempo. Questa carica concettuale è molto potente e così è nata una serie di nove nature morte con nove dittatori sopra: Still Life President For Life. Torna il discorso dell’oggetto pittorico. Appoggiare un vetrino a una tela le dà un peso anche fisico. Per me questo è importante, come anche il fatto che tutti i dipinti siano stati realizzati come conseguenza di una dittatura degli oggetti impiegati per dipingerli, qualcosa di costrittorio, vincolante. Sono fughe dalla dittatura dell’immagine.

Anche una natura morta, allora, può essere politica.
Mike Watson a proposito di questi lavori ha scritto un testo per la mostra in cui si interrogava sul fatto che se un dittatore si trovava sopra un limone, allora questo voleva dire che sarebbe potuto stare sopra a qualsiasi cosa, sopra a tutto il mondo… Io non ho mai fatto un lavoro politico dichiarato, però rivendico il fatto che il lavoro di un artista sia in qualche modo politico. E soprattutto il lavoro sul guardare lo è. Guardare è uno strumento che determina il pensiero, determina una scelta. Se riprendiamo la consapevolezza di alcuni processi che stanno dietro l’immagine abbiamo una coscienza di essa. Vedo questi lavori come vie di fuga, piccole insurrezioni.

Kangal è il nome di una razza canina e una tua personale del 2005 e il catalogo che l’accompagnava si intitolavano Cave Canem. Sei un cinofilo, vero?
Sono da sempre un appassionato cinofilo e mi è sempre interessata la storia del cane e la sua evoluzione. Kangal deriva da una razza di molosso da pastore anatolico, una razza antichissima che, nei millenni, ha subito pochissime variazioni. L’unico lavoro fatto dall’uomo sulla razza era funzionale, per migliorarne forza, resistenza, intelligenza, anche ferocia. Nell’ultimo decennio è diventata una razza di moda e così ha subito più variazioni sullo standard in soli dieci anni che nei millenni precedenti. Sono variazioni dal punto di vista estetico non funzionale. In mostra oltre a Still Life President For Life ho esposto dipinti tratti da immagini fotografiche di molossi e mastini. Mi colpiva il fatto che ci fosse stata una ingerenza, una forzatura dal punto di vista della forma da parte dell’uomo nei processi selettivi, come i miei quadri avevano subito una forzatura per via dell’impiego dei visori autoprodotti. Dal punto di vista del soggetto, i cani mi incuriosiscono perché mi sfuggono. Partono come cani poi diventano maschere, fantasmi, divinità. Hanno sempre una “presenza”, ti guardano, sono a metà tra il fare la guardia e l’incutere paura. Nel mio lavoro è importante non avere una lettura didascalica dell’opera o del soggetto. Voglio che resti qualcosa che sfugge, qualcosa di cui avere timore.

Marco Bongiorni SLPFL 2017. Exhibition view. Photo credit © Romer Pittura lingua viva. Parola a Marco Bongiorni

Marco Bongiorni, SLPFL, 2017. Exhibition view. Photo credit © Romer

La maschera a cui fai riferimento è un altro tema importante. Racchiude il ritratto, l’autoritratto. Anche i dispositivi ottici che usi sono delle maschere che fungono da filtro/barriera.
Ci sono più chiavi di lettura, forse la più banale e semplice, ma anche la più corretta, è che ho iniziato disegnando teste di sculture. Si è instillato nel mio disegno, fin dalla sua nascita, il rapporto con la testa, che è fondamentale. Ho invece disegnato e dipinto pochissimo paesaggi perché hanno una complessità, una vastità spaziale, che faccio fatica ad affrontare. Un’altra motivazione che mi attira tantissimo nel dipingere una testa, o una maschera o un volto – c’è un continuo passaggio da una all’altro – è il fatto che in molti cicli pittorici del passato la testa crea il ritmo dell’immagine. Fin dal Trecento, e poi nel Cinquecento e Seicento, con le aureole dei santi la testa diventa una punteggiatura visiva del dipinto. Poi c’è la questione della direzione degli sguardi, che danno una seconda lettura e suggeriscono ritmi e tracciati da seguire. C’è un’immagine che secondo me è fondamentale per capire il mio lavoro: la fotografia del tracciato visivo mappato negli Anni Settanta dallo studioso di origine russa Alfred Yarbus, che è riuscito a mappare i movimenti oculari di una persona quando guarda una immagine. Questi micromovimenti si chiamano saccadi. Sono involontari, inconsapevoli, servono per leggere una intera immagine. Una delle zone verso la quale si attivano maggiormente è il volto, abbiamo infatti maggiore attenzione sul volto. Quando ho scoperto questa fotografia durante i miei studi ho pensato: “Questo è un mio disegno!”. È stata una specie di conferma. Il mio modo di disegnare è in connessione con il movimento del mio occhio, molto fisico, biologico. I volti, le teste sono calamite che attirano l’occhio.

Nelle tue opere concorrono figurazione e astrazione. Dove finisce una e inizia l’altra?
Se dovessi definirmi, direi che sono un pittore figurativo, non per il risultato finale, ma perché nel processo pittorico non riesco a partire dall’assenza della figura. Ci riesco tecnicamente, ma, quando avviene, quello che ne deriva è privo di anima, di nervo. Ho sempre bisogno del dato visivo, figurativo, di partenza. Poi durante il processo questo si può perdere. Il mio processo pittorico è molto istintivo, ma anche riflessivo. Ho fasi di lavoro forti, veloci, ma poi ho dei rallentamenti. A un certo punto l’immagine sfugge, certe parti dei lavori perdono la definizione, con stratificazioni cancellature, ripensamenti. Tali ripensamenti mi permettono di coprire una parte di immagine quando non funziona. Posso toglierla senza toglierla, non eliminandola ma facendola diventare altro.

Diventa quasi una pittura processuale, nelle tue opere si ritrova quindi non solo l’esito finale, ma il suo pregresso, la sua costruzione…
Questo è fondamentale: il fatto che in un mio quadro tu riesca a leggere i vari strati e i passaggi fatti per realizzarlo, certo non in modo didascalico, ma organico. Questo ti mette in una condizione di instabilità, ti trovi in continuo passaggio tra i vari strati. I vari frame, le mascherature, li metti a fuoco con passaggi diversi. L’immagine si muove nella tua testa. Il movimento è uno strumento che mi interessa usare per generare forme inaspettate.

È un procedere quasi filmico.
Esatto. È fondamentale per rendere l’immagine viva, instabile, in movimento, appunto.

Marco Bongiorni. Photo credit © Romer

Marco Bongiorni. Photo credit © Romer

Ci si ricollega alla tua volontà di smontare l’immagine e sperimentare altri modi di vedere…
I miei sono dipinti lenti, più li guardi, più affiorano elementi. Voglio dipingere immagini che abbiano una percentuale di mistero, non risolta. Faccio questo cercando di mettere dubbi sia sulle modalità di realizzazione, sia sui contenuti, sia sull’approccio all’immagine.
Sono stato per anni assistente di Claudio Olivieri, un pittore che reputo eccellente, un amico ormai. Anche lui ha una pittura che è processuale, ma che a un certo punto smette di essere solo il processo e diventa altro. L’oggetto pittorico, il luogo in cui fai succedere le cose, a un certo punto deve diventare altro, staccarsi da te e funzionare nel mondo.

È da Olivieri quindi che hai recuperato il concetto di una pittura che parla di se stessa.
La pittura ha sempre a che fare con l’analizzare se stessa, in qualche modo. È un parlare di altro tramite se stessi. Secondo me la pittura analitica questo lo ha fatto bene. Quello che mi colpisce di Olivieri è che suoi quadri di trentacinque/quarant’anni fa ancora oggi hanno una tenuta straordinaria. Olivieri parte dipingendo i suoi quadri col pennello, crea macchie e ritmi cromatici, poi, a un certo punto, con un aerografo, decide di staccare la mano dalla tela, di non avere contatto diretto tra tela a mano. Il segno scompare. Diventa sensazione.

Oltre a Olivieri, chi sono i tuoi maestri o a che artisti guardi?
Tra i contemporanei mi piace molto Neo Rauch. Ho conosciuto il suo lavoro in un momento in cui c’era sfiducia nella pittura e scoprirlo per me è stata una vera boccata d’aria. È un pittore che mi piace perché, in teoria, non dovrebbe piacermi. Fa cose che io non farei, fa scelte che io farei fatica a immaginare di fare al suo posto. Mi mette davanti alle mie debolezze, a cose che non so. Mi piace il lavoro di Victor Man, ma anche di Lenz Geek. In Italia Pesce Kethe, Andrea Carpita, Angelo Sarleti. Mi piace Ian Tweedy, siamo cresciuti insieme, ci siamo influenzati molto, non tanto dal punto di vista formale, ma abbiamo passato momenti importanti parlando di pittura e lavoro.
Tra i maestri, il mio favorito, soprattutto per i disegni, è Arshile Gorky, in certi casi quasi snobbato come artista. Non è per niente scontato, è in bilico tra figurazione e astrazione, riesce a essere leggero, ma forte, con rigore e serietà. Mi piace Polke, poi, andando più indietro, oltre ai soliti grandi nomi, amo molto la spietatezza di Walter Sickert. La trovo anche in Tintoretto, un pittore che mi sconvolge sempre: tratta la tela in modo rapido, è così “aggressivo” nel modo di fare pittura.

E invece la letteratura e il cinema hanno una influenza sul tuo lavoro? Quali autori ti piacciono?
Mi piace Jonathan Littel. Ha anche scritto di Francis Bacon e ho trasformato questo suo libro in un lavoro: ho fatto un autoritratto intervenendo su una tavola illustrata di un’opera che stavo studiando. Ho letto i suoi reportage in Siria e Cecenia e dei brevi racconti. Di lui mi piace il fatto che abbia una scrittura che ti porta in certi luoghi senza accorgerti che ti ci abbia portato.
Anche il cinema mi piace, ma più quello mainstream e i film di serie B. Uno degli esercizi che faccio è andare a disegnare al cinema con taccuini piccoli. Non disegno però la narrazione. Mi piace il fatto che ti devi misurare con una traduzione di scala dallo schermo al taccuino, e poi la forma cambia davanti a te, mentre la disegni. Quando si accedono le luci riconosci alcuni passaggi ma altre forme sono nate in una maniera completamente imprevista. E, paradossalmente, i miei disegni diventano più interessante più i film sono brutti.

Ci sono tecniche o formati che prediligi?
Il formato grande è quello in cui mi ritrovo maggiormente, funziona per me. Anche a livello di sensazioni, mi fa stare bene. Nei formati più piccoli – fogli, disegni, taccuini – funziona ugualmente, ma quasi all’inverso, quasi fosse una costrizione. Il limite mi permette di trovare strategie diverse. Dipingo quasi esclusivamente a olio perché è una materia lenta, che mi permette di stratificare. Disegno tanto a grafite, a carbone. Da tanto tempo disegno con l’inchiostro della Bic, ma spezzando la penna e usando solo la cannuccia perché mi permette di avere un determinato segno che non troverei in altro modo. Il colore è viscoso, scende lentamente, devi muovere la mano in un determinato modo. Lo strumento o la materia hanno bisogno di un ascolto particolare. Quando hai in mano una cosa, lei ti detta il modo in cui usarla: lo strumento ti chiede di essere usato in un certo modo, la materia anche. Per lo stesso motivo per le sculture in legno, come già dicevo, uso colla a presa lenta.

Perché fare pittura oggi?
Da un lato per resistere. È una forma di resistenza. Dall’altro, per me importantissimo, per restituire dignità ai pittori, per riappropriarsi dell’importanza che ha la pittura in un mondo in cui non le viene riconosciuta. Un pittore è ancora oggi una persona in grado di vedere delle cose in un modo che altri non vedono. Fare pittura oggi vuol dire avere la responsabilità e la voglia di rivendicare questo.

E cosa pensi della scena della pittura italiana?
Ci sono grandi pittori in Italia. Certo, abbiamo un sistema che ha i suoi limiti, ma le cose si muovono, stanno cambiando. Abbiamo grandi pittori, dicevo, ma hanno bisogno di acquisizioni. La chiudo in modo molto pratico: c’è bisogno di acquistare pittura italiana. Se le loro opere non vengono acquistate, i pittori non riescono a continuare a dipingere e a promuovere così la loro ricerca.

‒ Damiano Gullì

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Damiano Gullì

Damiano Gullì

Damiano Gullì (Fidenza, 1979) vive a Milano. I suoi ambiti di ricerca sono l’arte contemporanea e il design. Da aprile 2022 è curatore per l'Arte contemporanea e il Public Program di Triennale Milano. Dal 2020 è stato Head Curator del…

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