Narcisa Monni (Alghero, 1981) vive e lavora a Sassari. Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Sassari in Pittura e successivamente si specializza in Interaction Design alla Facoltà di Architettura di Alghero. Attualmente è docente di Pittura e Progettazione per la Pittura presso l’Accademia di Belle Arti M. Sironi di Sassari. Tra le sue principali mostre personali e collettive: Insieme a te non ci sto più, Stazione dell’Arte, Ulassai, 2020; Back up, giovane arte in Sardegna, Museo Nivola, Orani, 2020; Ritratti d’autore, Masedu Museo d’Arte Contemporanea, Sassari, 2019; One Shot, Palazzo Ducale, Sassari, 2018; Stato di grazia, Palazzo del Consiglio Regionale della Sardegna, Cagliari, 2016; Art’s Oasis, Concorso internazionale di arte urbana, Petrosino, 2016; DEEP, Circoloquadro, Milano, 2014. Il dipinto Le caramelle fa parte della collezione della Stazione dell’Arte di Ulassai, museo che ha ospitato l’opera.
Come ti sei avvicinata alla pittura?
Alla pittura vera e propria mi sono avvicinata nel 2012, dopo aver fatto da assistente per un corso di arteterapia che si svolgeva in una struttura psichiatrica a Sassari. Prima di allora, per diversi anni la mia ricerca si è sviluppata sotto forma di installazioni, a parte i primissimi anni dell’Accademia in cui fai pura sperimentazione con i dipinti. Ma sono cose da dimenticare!
Chi sono gli artisti e i Maestri cui guardi?
Sinceramente, non ho degli artisti in particolare ai quali faccio riferimento. Sono molto curiosa e studio un po’ tutti. È molto stimolante andare a vedere le collezioni dei grandi musei o conoscere gli artisti che lavorano nelle gallerie. Principalmente ho sempre studiato più i concettuali che i pittori, nonostante ultimamente io faccia questo. La poetica è il punto di partenza, il prodotto finale è il parto di quest’ultima.
La storia, la tradizione della pittura incidono sulle tue opere?
Credo sia inevitabile che la storia dell’arte in generale influisca sul mio modo di lavorare, credo influisca sulla vita di ognuno, non ci soffermiamo a ragionarci perché non è nemmeno necessario farlo.
Perché la scelta della figurazione? E come si rapporta lo sfondo con la figura? Mi sembra che in generale lo sfondo non sia mai approfondito ma serva più che altro a mettere in risalto i soggetti delle opere.
La scelta della figurazione riguarda solo la mia ultima produzione, non l’ho sempre utilizzata per realizzare le mie opere. In questo caso, lo sfondo in realtà è sempre lo stesso, è un ambiente chiuso, una casa, un bar o un locale qualsiasi. È molto più importante di quanto possa risultare perché è quello che localizza queste figure, è una costante che permette a questa serie di avere una linea guida.
Dicevi prima che hai sempre preferito studiare i concettuali e tu stessa ti definisci “un’artista concettuale attraverso la pittura”. La pittura è quindi un mezzo o un fine per te?
Io non mi sono mai considerata una pittrice, credo che ogni artista sia concettuale, letteralmente parlando. Per me è solo un mezzo che, unito al titolo, alla scelta del supporto e alla tecnica, serve semplicemente per concepire e trasformare in forma quello che voglio dire, quello che penso, che provo e che voglio che gli altri vedano. Conosco tantissimi pittori che sono bravissimi. Non mi sono mai considerata una di loro. Forse non mi permetterei mai nemmeno di pensarlo. Io faccio altro.

LA PITTURA DI NARCISA MONNI
Chi sono i soggetti delle tue opere? Parti da ritratti dal vero o da riferimenti fotografici?
Parto da riferimenti fotografici che perdono la loro identità per diventare me, o te, o chiunque si voglia rivedere in determinate situazioni. I soggetti delle mie opere sono quindi rappresentanti di emozioni, manichini che indossano i panni dei nostri sentimenti, più o meno felici, ma soprattutto tristi, consapevoli di questa condizione, ma sempre senza alcun tipo di autocommiserazione. Sono personaggi che accettano quello che succede perché questa è la vita, ci siamo, facciamolo.
E nel rappresentare quello che la vita ci riserva, come si può raccontare il dolore?
Per me è molto più semplice raccontare il dolore. Per la maggior parte degli artisti di tutta la storia è sempre stato più semplice. Sono stati veramente in pochi a parlare di gioia. Come si potrebbe? Io non ne sarei davvero capace.
Parlavi prima di manichini, di personaggi. La maschera cosa rappresenta per te? I tuoi personaggi sono anche maschere?
Vedo la maschera come qualcosa che nasconde, che ti fa diventare un’altra cosa. Non so perché ma do a essa un’accezione negativa. Non credo che i miei personaggi siano maschere, anzi non lo sono proprio, sono quello che sono.
Come nasce la serie Insieme a te non ci sto più?
In realtà, quello è il titolo della mostra alla Stazione dell’Arte di Ulassai, la serie si intitola In tempo di guerra, iniziata dal secondo giorno di lockdown e composta da più di 100 lavori. Nasce in una maniera singolare, non trovandomi a casa e non avendo gli strumenti per poter dipingere, ho utilizzato quello che avevo, riviste e delle tempere Giotto. Ho dipinto sopra quelle riviste che rappresentavano momenti di vita che forse non avremmo più vissuto. Ho voluto creare una sorta di ricordo di ciò che era stato e che forse non sarebbe più avvenuto. Sono molto catastrofista: per me eravamo già tutti morti! Quindi, ogni dipinto era un momento che avevo vissuto oppure che stavo vivendo o che stavano vivendo altre persone. In particolare, ho pensato molto alle situazioni che potevano vivere alcune persone più in difficoltà di altre, come prostitute, barboni, tossicodipendenti. In questa serie ho dato molto spazio a loro.
In generale, come nascono i titoli delle tue opere? Parli di vergogna, di abbracci, di buona educazione, di innamoramenti, di matrimoni, di ragazze ubriache… C’è tanta quotidianità, tanto vissuto… Un titolo in particolare mi colpisce: Divento divertente per farti ricordare il mio nome.
I titoli delle mie opere si riferiscono a quelle cose semplici che ci accadono, ma nessuno ha mai il coraggio di presentarle per quello che sono. Ad esempio, prendendo il titolo che hai citato, Divento divertente per farti ricordare il mio nome, altro non è che quel momento di imbarazzo a un primo appuntamento, in cui chiunque cerca di dare il meglio di se stesso affinché l’altra persona venga colpita e abbia voglia di rimanerle accanto. Si diventa forzatamente divertenti, brillanti e si mettono i vestiti migliori. Così poi ricordi il mio nome, non mi dimentichi.
C’è una forte dimensione intima, è presente anche un soffuso erotismo?
Più che erotismo, direi seduzione, che non necessariamente coinvolge la sfera sessuale. Ma a volte lo fa.

TITOLI E AUTOBIOGRAFIA NELLA PITTURA DI NARCISA MONNI
I tuoi titoli innescano piccole poetiche narrazioni. Come ti rapporti con la scrittura?
I titoli fanno parte dell’opera quanto la scelta del supporto o del soggetto. Non parlo quindi di scrittura. Diciamo che è uno dei diversi elementi che, alla fine, compongono la mia opera. Se dovessi soffermarmi su questo, al fatto che sia scrittura, probabilmente non riuscirei a fare niente.
Come ti immagini gli osservatori interagiscano con le tue opere? Preferisci guidarli dando chiavi di lettura, magari appunto attraverso i titoli, o lasci aperte le interpretazioni in maniera più evocativa?
Gli spettatori danno la loro interpretazione, in base al dipinto che hanno davanti si rispecchiano, diventano loro stessi i soggetti. Questo probabilmente è dato dal fatto che io rappresento delle situazioni che hanno sperimentato tutti.
Quanto conta, quindi, la componente autobiografica?
È fondamentale, altrimenti non saprei quello che sto facendo.
Le opere della serie di cui parlavamo prima come entrano in dialogo tra loro? Le avevi già pensate in maniera unitaria o è stata una germinazione spontanea che poi le ha unite?
Ogni volta che inizio un dipinto, so che sto realizzando una serie. Non riesco a pensare a una singola opera, quasi come se tutti i pezzi creassero un solo lavoro. Questo non significa che sto producendo un racconto, è una mia esigenza: un solo quadro non riuscirebbe a soddisfare la mia necessità di affrontare quella determinata tematica.
Come è avvenuto il passaggio dalla dimensione virtuale (le opere in un primo tempo erano fruibili tramite i social) a quella fisica in un contesto museale?
Su questo passaggio io c’entro ben poco, li espongo nella piattaforma virtuale che è la prima vetrina che mi permettere di metterli in mostra, dopodiché ci sono altre figure professionali che decidono di concretizzare questo lavoro presentandoli in uno spazio fisico.
Che rapporto hai in generale coi social e come pensi che le due dimensioni, virtuale e fisica, appunto, possano coesistere?
Come dicevo prima, i social sono la prima vetrina che mi permettere di far vedere agli altri quello che sto facendo. Questo primo riscontro mi permette di capire se un determinato lavoro funziona o meno. Sono due dimensioni totalmente diverse, me ne rendo conto, ma coesistono perché tutte e due hanno una funzione fondamentale: il mostrarsi. Credo che, attualmente, una non possa esistere senza l’altra. Questi sono i tempi, questi sono i nuovi mezzi di comunicazione.
Si parlava prima di Maestri, come è stato il confronto ideale con una figura quale Maria Lai?
Maria Lai è stata una delle più grandi artiste italiane del Novecento, la sua arte è ancora attuale, è stata una figura prolifica e una grande Maestra per tutti. Trovarmi nel suo museo, con la mia personale a pochi passi dalla sua, è stata una grandissima emozione, ma non l’ho vissuta come un confronto, mi sono sentita come una persona che, grazie anche alla sua produzione, ha potuto continuare questo percorso artistico, in un’isola nella quale è molto complicato affrontare questo mestiere.

MEMORIA, RICORDO E QUOTIDIANITÀ
Cosa rappresentano per te la memoria e il ricordo?
Il ricordo è essenziale nel mio lavoro e nella mia vita in generale. Il ricordo, la maggior parte delle volte distorto come quello di tutti, mi permette di sintetizzare determinate emozioni e trasformarle in sentimenti e azioni che molte volte non sono mai accaduti. La memoria e il ricordo sono quindi deformati, credo riguardino l’istinto di sopravvivenza. A volte ci conviene ricordare, a volte no.
E quella quotidianità, direi domesticità, di cui si parlava prima? Le abitudini?
La quotidianità è il tema principale del mio lavoro, da sempre. Anche se in forme diverse, parlo solo di quello, l’unica cosa che conosco realmente.
E il senso di appartenenza a un territorio?
Non credo di appartenere a nessun territorio pur vivendo da sempre in un’isola, potrei andare via a non appartenere a nessun altro territorio. Non ho questa concezione del luogo, non l’ho scelto io e il territorio non ha scelto me. Ora sono qui, domani chissà.
Come si è trasformato il tuo lavoro nel tempo?
Il mio lavoro si trasforma sempre, non ho un genere preciso, posso passare dalla pittura all’installazione alla fotografia, mantenendo sempre però la stessa poetica. Si tratta di un intimismo quasi ossessivo, del mio quotidiano, dei miei amori, dei miei dolori, dei miei fallimenti, ed essendo una persona semplice come quasi tutti, è facile per lo spettatore ritrovarsi in quello che faccio.
Che formati prediligi?
Dipende da quello che devo fare.
E la tecnica conta?
Certo, in base a quello che devo fare.
Il disegno che ruolo svolge nella tua pratica?
Non so, per ora non ho avuto modo di realizzare qualcosa sotto forma di disegno, magari più in là. In più non preparo bozze, vado direttamente sul supporto. So sempre quello che devo fare.
E il colore?
Anche qui devo rispondere che è sempre in base a quello che devo fare.
La tua è una pittura lenta o veloce?
Molto veloce. Quello che è lento è il pensiero. Posso passare mesi a pensare a cosa devo fare, a distruggerlo, a ricostruirlo, distruggendolo di nuovo fin a quando non è abbastanza forte da non poter più essere attaccato. Allora lo dipingo.
La musica, il cinema, la letteratura, la poesia incidono sui tuoi immaginari?
Senza queste cose penso che riuscirei a non fare niente. Sono tutti stimoli fondamentali per me, soprattutto il cinema. Guardo almeno due film al giorno, è necessario.
Perché fare pittura oggi?
Oggi, ieri, domani si fa pittura perché è una delle forme d’arte che non morirà mai, è una esigenza che ha l’artista di fare e dello spettatore di osservare. Non credo abbia un periodo di scadenza, si evolve, cambia, poi ritorna come prima, poi cambia di nuovo.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Penso che stia vivendo un momento particolarmente positivo e di grande fermento. Dopo anni in cui la pittura era stata messa quasi in secondo piano rispetto ad altre forme espressive, oggi conosco e vedo molti pittori validi che stanno raggiungendo il riconoscimento che gli si deve.
‒ Damiano Gullì