Futuro Antico. Intervista al regista Simone Bozzelli 

Il giovane regista Simone Bozzelli, reduce dal successo del suo primo film Patagonia, ritiene che nella vita sia importante restare dilettanti. In un mondo dove l’unica fede è nel corpo

Simone Bozzelli, classe 1994, si diploma in Media, Design e Arti Multimediali presso la NABA nel 2017 e nel 2020 si diploma in Regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. I suoi primi cortometraggi, Mio Fratello e Loris sta bene, partecipano a molti festival internazionali. Il terzo cortometraggio Amateur viene presentato in concorso alla 34. Settimana della Critica di Venezia, mentre il successivo J’ador vince il primo premio alla 35. Settimana della Critica. Nel 2021 dirige il video di I Wanna Be Your Slave dei Måneskin, che l’anno dopo si aggiudica l’MTV Music Award per Best Alternative Video. Il quinto cortometraggio, Giochi, viene presentato al 74. Festival di Locarno. Patagonia è il suo primo lungometraggio. L’abbiamo intervistato per chiedergli del suo lavoro e della sua visione sul futuro. 

Simone Bozzelli
Simone Bozzelli

Intervista a Simone Bozzelli 

Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte? 
Mi chiedo sempre dove si posa il mio sguardo sulle cose. E, nell’arte, credo che la questione dello sguardo sia centrale. Tuttavia la vera natura dello schermo, di un frame, non è tanto delimitare l’immagine quanto nascondere ciò che la circonda. Ciò che si guarda, dunque, racconta anche ciò non si guarda. Il risultato è dunque un dubbio, che è più potente di qualsiasi verità. Mi ispirano tutti gli autori che hanno inquadrato i corpi del dubbio delle relazioni, come R.W. Fassbinder o Marco Ferreri. Le loro non sono opere di persuasione ma di smarrimento. 

Qual è il progetto che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi? 
Con sicurezza dico il mio primo film, Patagonia, anche perché, per ora, è l’unico.  
Patagonia, oltre a raccontare un frammento della mia vita, è stato un lavoro che ha intrecciato scrittura, incontri e un viaggio emotivo al di fuori dei ventiquattro fotogrammi al secondo.  
L’idea iniziale, nata con lo sceneggiatore Tommaso Favagrossa, era quella di una trascrizione dettagliata e angosciosa di una relazione impari e senza futuro. Il trauma della relazione, di un amore come forma di prigionia, di un abuso emotivo e verbale perpetuo in nome della reciproca necessità. Ci siamo chiesti: perché (spesso) l’essere umano cerca la sofferenza, la rincorre, la trattiene e, se ne è oppresso, non tenta di liberarsene, anzi sembra quasi volerla proteggere? C’è un piacere misterioso nella sofferenza. È un prezzo che si paga per avere, forse, qualche altra cosa.  

Che importanza ha per te il Genius Loci all’interno del tuo lavoro? 
I luoghi per me hanno una grande valenza simbolica. Raccontano sempre qualcosa di chi li abita e questo è uno strumento potente per chi produce immagini. Penso ai paesaggi desertici di Twentynine Palms di Bruno Dumont e l’arida passione che consuma i due protagonisti… 
Penso, nel mio piccolo, a uno dei miei primi cortometraggi, Loris sta bene, che racconta di un ragazzo che ha idealizzato un amore che forse non esiste. Avevo chiesto allo scenografo dei luoghi che fuggissero dal realismo, volevo che il personaggio abitasse una finzione. 
Buttare un occhio su dove sei per capire come stai è un buon esercizio. 

Il futuro secondo Simone Bozzelli 

Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credi che il futuro possa avere un cuore antico? 
Ogni giorno è la cerniera tra passato e futuro. E, in effetti, vivo il presente con grande angoscia perché lo percepisco come una media aritmetica tra percorsi passati e corse future. 
Non ho memoria del dolore passato, e quindi emotivamente mi insegna poco. Allo stesso modo, tutto ciò che faccio mi sembra fatto bene, bello, solo se è passato. 

Quali consigli daresti ad un giovane che voglia intraprendere la tua strada? 
Rimanere dilettante. L’amatore, l’appassionato lavora per amore e diletto senza preoccuparsi delle prospettive di forma e carriera. Il dilettante corre rischi, sperimenta e segue l’istinto. Lavorando in maniera non professionale si giunge a nuove scoperte. Nella mente del dilettante ci sono molte possibilità, in quella dell’esperto poche. 

In un’epoca definita della post-verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?  
Il sacro è qualcosa che per me ha a che fare con l’ignoto e la fede. La mia fede e il mio ignoto sono i corpi. È verso un corpo che la mia vista e la mia curiosità si inclinano spontaneamente, godono naturalmente di conoscere, senza stancarsi mai e sentirsi forzate. Il desiderio nel suo livello più profondo ha sempre a che fare con grandezze infinite e quindi sacre. Ma la totalità non esiste senza un particolare minimo su cui far perno: un naso, una mano o una dentatura irregolare possono diventare forma e luogo in cui si manifestano, in me, dimensioni spirituali di devozione e desiderio. E quindi di creazione. 

Come immagini il futuro?  
Qualsiasi risposta che io potrei dare nasconderebbe un’ipotesi catastrofica o consolatoria. Tuttavia mi è impossibile pensare al concetto di futuro senza però pensare alle parole di Giorgio Agamben sul contemporaneo, ovvero l’intempismo. Contemporaneo come una singolare relazione col proprio tempo che aderisce ad esso e al tempo stesso prende le distanze. Il neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra. Affrontare questo “buio speciale” è sicuramente una chiave per guardare (e raccontare) il prossimo futuro. 

Ludovico Pratesi 

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Ludovico Pratesi

Ludovico Pratesi

Curatore e critico d'arte. Dal 2001 al 2017 è stato Direttore artistico del Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro Direttore della Fondazione Guastalla per l'arte contemporanea. Direttore artistico dell’associazione Giovani Collezionisti. Professore di Didattica dell’arte all’Università IULM di Milano Direttore…

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