Architetti d’Italia. Carlo Aymonino, il teorico

Architetto “allergico” alla politica, Carlo Aymonino è il protagonista del nuovo capitolo della rubrica di Luigi Prestinenza Puglisi dedicata ai grandi nomi della architettura italiana.

Nella metà degli Anni Settanta, quando frequentavo la facoltà di Architettura di Roma, uno dei punti di riferimento era Carlo Aymonino, un romano che insegnava a Venezia, dove dal 1963 era stato chiamato da Giuseppe Samonà. A propormi per la prima volta la lettura dei suoi scritti fu Renato Nicolini, allora assistente al corso di Composizione architettonica 1 tenuto da Mario Fiorentino. Nicolini, a dire il vero, di libri ne suggeriva tre. Il primo era L’urbanistica e l’avvenire delle città di Samonà, un mattone indigeribile che nessuno si sarebbe mai sognato di mettere in discussione anche perché pochi erano riusciti a leggerlo dall’inizio alla fine.
Il secondo era L’architettura della città di Aldo Rossi e il terzo era Origini e sviluppo della città moderna di Carlo Aymonino. Sebbene il libro di Rossi fosse il più diffuso e letto, Origini e sviluppo non era da meno; l’ho da poco ritrovato nella mia libreria: la prima edizione era del 1965, poi ve ne era stata una completamente rinnovata nel 1971 e già nel giugno del 1974 era arrivato alla quinta.
Il testo era stato scritto in polemica contro le tesi di Leonardo Benevolo sostenute nel libro Le origini dell’urbanistica moderna secondo le quali vi è sempre stato uno stretto rapporto, quasi di identificazione, tra politica e urbanistica. Tesi questa che in sede storica portava a sopravvalutare i progetti degli architetti che avevano posto le questioni urbanistiche più in termini sociali che disciplinari. Quali, per esempio, gli esperimenti dei falansteri e delle unità di abitazione, mettendo in secondo piano, perché liquidate come borghesi, le grandi esperienze urbane di fine Ottocento, quali il ridisegno della Parigi del barone Haussmann o della Vienna del Ring.
Mi interessava” ‒ sosteneva Aymonino nella prefazione alla seconda edizione di Origini e sviluppo ‒ “confutare le troppo rapide identificazioni tra urbanistica e politica (ma quale urbanistica e quale politica?) che il Benevolo andava sostenendo e tuttora sostiene, con una coerenza che è stata di grande conforto per tutti coloro cui fa paura o crea difficoltà il metodo dialettico”. Aymonino ha un duplice obiettivo. Il primo è spostare nel tempo l’origine dell’architettura moderna, ritrovandola nel processo di formazione della città conseguente alla rivoluzione industriale e alla strutturazione democratica-borghese della società. L’architettura moderna, insomma, non nasce ignorando o negando, come accadde per la cultura architettonica negli Anni Venti, l’esistente in nome di un nuovo linguaggio formale, ma si struttura e articola lungo un processo storico più lungo e complesso che parte dall’Ottocento, se non dal Settecento. Il secondo obiettivo è rivendicare la centralità della città rispetto alle semplici questioni architettoniche, trovando alcune leggi generali di crescita “in antitesi con quasi tutta la prassi urbanistica italiana di questo dopoguerra che, imperniata intorno a soluzioni cosiddette concrete, si è persa in una serie di episodi parziali, difficilmente riconducibili a una loro validità teorica”.

AYMONINO E LA POLITICA

Visto in questa luce, l’obiettivo di Aymonino non è dissimile, per non dire che è quasi identico, da quello di Aldo Rossi e dello stesso Samonà: recuperare il valore della tradizione e, in particolare, della storia urbana per delineare una architettura in grado di porsi in continuità con questa. Quindi critica rispetto alle banalità dell’urbanistica dello zoning e degli slogan politici, per riscoprire un modo di organizzare e costruire la città meno meccanico di quello dei quartieri satelliti e delle unità di abitazione galleggianti nel vuoto e disperse nel verde.
La città si fa, insomma, attraverso la storia e non con la semplice politica. Infatti, le buone costruzioni, grazie alla relativa indipendenza rispetto alle ideologie che le hanno generate, dimostrano di avere validità nel tempo. “La Roma di Domenico Fontana” ‒ continua Aymonino ‒ “o la Parigi di Jules Hardouin Mansart hanno retto le integrazioni, le deformazioni e le enormi aggiunte successive proprio perché queste sono state in gran parte condizionate da un disegno iniziale che proiettava la città al di là dei confini di stretta utilità e convenienza del proprio tempo, dandone una giustificazione più complessa attraverso la presenza di monumenti architettonici che venivano a costituire i punti di riferimento di un sistema non necessariamente tutto costruito”. Insomma: nel processo di costruzione della città occorre, al di là della eteronomia della politica, soffermarsi sull’ autonomia disciplinare. D’altronde “dal punto di vista dei rapporti urbani, analizzati morfologicamente” ‒ conclude Aymonino ‒ “che differenza passa tra lo stadio comunale e la sua collocazione rispetto a Firenze e lo stadio Lenin rispetto a Mosca?”.

Carlo Aymonino, quartiere Gallaratese, Milano, vista dal sottopasso di Bonola, 2013. Photo Arbalete CC BY SA 3.0 via Wikimedia

Carlo Aymonino, quartiere Gallaratese, Milano, vista dal sottopasso di Bonola, 2013. Photo Arbalete CC BY SA 3.0 via Wikimedia

AYMONINO E ALDO ROSSI

Il metodo di analisi si fonda su due parole chiave, in quel periodo particolarmente condivise: la tipologia edilizia e la morfologia urbana. La prima garantisce una continuità nel tempo dei modelli edilizi, la seconda permette di giustificare la varietà di forme che caratterizzano le città. I tipi edilizi devono infatti adattarsi all’orografia dei luoghi, alle specificità degli insediamenti precedenti, alle innumerevoli eccezioni che appartengono all’unicità del contesto. Basta però leggere gli innumerevoli scritti di quel periodo su questi temi per accorgersi che ciascun autore le due parole le intende a modo proprio: da Giancarlo Caniggia a Vittorio Gregotti, da Giorgio Grassi ad Aldo Rossi.
Il motivo, a distanza di tempo, ci appare sin troppo semplice: “tipologia” e “morfologia” sono due termini generici che, proprio perché tali, permettono di giustificare qualsiasi lettura urbana e qualsiasi progetto. Ma nello stesso tempo sono abbastanza definiti per tratteggiare un sia pur confuso programma di ricerca e uno schieramento culturale che crede nell’autonomia della disciplina, nella storia della città, nella permanenza delle forme.
Aymonimo è particolarmente abile nel sottolineare gli aspetti comuni più che quelli divisivi e nell’elogiare posizioni anche molto diverse dalle proprie, come nel caso di Aldo Rossi con il quale dichiara di condividere buona parte della propria visione. Con lui ha realizzato tra il 1969 e il 1973 il quartiere Gallaratese. Si tratta di due unità abitative, la sua e di Aldo Rossi, che non potrebbero essere più diverse. Debordante ed espressionista la prima, anche nell’uso dei colori, mentre bianca, austera sino a rassomigliare a un carcere, con i suoi 185 metri di lunghezza, è la seconda.  “Una lama” ‒ dirà Rossi ‒ “che entra dentro il groviglio dell’impianto di Aymonino”.

Carlo Aymonino, Complesso abitativo Monte Amiata, Milano. Photo Goldmund100 via Wikimedia

Carlo Aymonino, Complesso abitativo Monte Amiata, Milano. Photo Goldmund100 via Wikimedia

GLI INCARICHI DI AYMONINO

Che si tratti di due universi in effetti incompatibili poco importa, e a testimoniare il successo della propria posizione di mediazione culturale è la nomina a rettore dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV), incarico che ricopre dal 1974 al 1979. Nel 1980 Aymonino si trasferisce a Roma per diventare titolare della cattedra di Composizione. Nello stesso anno esce un libro, edito da Officina Edizioni, con una lusinghiera introduzione di Giorgio Ciucci e un lungo testo di Claudia Conforti. Ne emerge un architetto eclettico di non straordinario talento, anche se dotato di una mano eccezionale per il disegno, che, se si eccettua l’intervento del Gallaratese, ha prodotto opere pasticciate e nessuna rimarchevole. Nel 1981 Aymonino è nominato Assessore agli interventi sul centro storico a Roma (rimarrà in carica sino al 1985). È un ruolo che dal punto di vista culturale sembra attagliarsi perfettamente. Riesce, anche grazie all’infaticabile e appassionato supporto di Raffaele Panella, a coinvolgere alcuni tra i migliori progettisti del momento, da Maurizio Sacripanti ad Alessandro Anselmi, elaborando un progetto di rinascita del centro storico coraggioso e, in fin dei conti, moderno. Gli manca però il supporto della politica: la gran parte dei progetti rimane sulla carta per l’ostracismo delle soprintendenze e per il disinteresse diffuso nei confronti delle questioni architettoniche. Una occasione persa. Unica e magra consolazione, alla fine degli Anni Novanta gli viene dato l’incarico per intervenire con un progetto importante dal punto di vista simbolico, proprio nel cuore della Capitale. È la copertura del Giardino Romano all’interno dei Musei Capitolini a Roma per ospitare l’originale della statua di Marco Aurelio (nella Piazza del Campidoglio vi è infatti una copia). Il lavoro è interessante ma credo dimostri tutti i limiti della tendenza culturale alla quale Aymonino è appartenuto: più a proprio agio con le grandi questioni teoriche che con la pratica poetica dell’architettura. Muore il 3 luglio 2010, oramai dimenticato se non tenuto in disparte.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Architetti d’Italia #2 – Massimiliano Fuksas
Architetti d’Italia #3 – Stefano Boeri
Architetti d’Italia #4 – Marco Casamonti
Architetti d’Italia #5 – Cino Zucchi
Architetti d’Italia#6 – Maria Giuseppina Grasso Cannizzo
Architetti d’Italia#7 – Adolfo Natalini
Architetti d’Italia#8 – Benedetta Tagliabue
Architetti d’Italia#9 – Michele De Lucchi
Architetti d’Italia#10 – Vittorio Gregotti
Architetti d’Italia#11 – Paolo Portoghesi
Architetti d’Italia#12 – Mario Cucinella
Architetti d’Italia #13 ‒ Mario Bellini
Architetti d’Italia #14 ‒ Franco Purini
Architetti d’Italia #15 ‒ Italo Rota
Architetti d’Italia #16 ‒ Franco Zagari
Architetti d’Italia #17 ‒ Guendalina Salimei
Architetti d’Italia #18 ‒ Guido Canali
Architetti d’Italia #19 ‒ Teresa Sapey
Architetti d’Italia #20 ‒ Gianluca Peluffo
Architetti d’Italia #21 ‒ Alessandro Mendini
Architetti d’Italia #22 ‒ Carlo Ratti
Architetti d’Italia #23 ‒ Umberto Riva
Architetti d’Italia #24 ‒ Massimo Pica Ciamarra
Architetti d’Italia #25 ‒ Francesco Venezia
Architetti d’Italia #26 ‒ Dante Benini
Architetti d’Italia #27 ‒ Sergio Bianchi
Architetti d’Italia #28 ‒ Bruno Zevi
Architetti d’Italia #29 ‒ Stefano Pujatti
Architetti d’Italia #30 ‒ Aldo Rossi
Architetti d’Italia #31 ‒ Renato Nicolini
Architetti d’Italia #32 ‒ Luigi Pellegrin
Architetti d’Italia #33 ‒ Studio Nemesi
Architetti d’Italia #34 ‒ Francesco Dal Co
Architetti d’Italia #35 ‒ Marcello Guido
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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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