Architetti d’Italia. Lina Bo Bardi, l’inesauribile

Un’architettura libera, minimale senza snobismo, caratterizza l’opera di Lina Bo Bardi, al vaglio di Luigi Prestinenza Puglisi.

Achillina Bo, per tutti Lina, nel 1945 sposò Pietro Maria Bardi. Insieme, nel 1946, si trasferirono in Brasile. Pietro Maria Bardi era stato un fascista della prima ora. Giornalista, gallerista, uomo di cultura, era uno degli eroi dell’architettura moderna in Italia. Nel 1933 Bardi aveva fondato e diretto, con Massimo Bontempelli, la rivista Quadrante sostenuta economicamente da Giuseppe Terragni, Mario Radice, Virgilio Ghiringhelli.
Due anni prima, nel 1931, aveva promosso la Seconda esposizione di Architettura Razionale dove, per mostrarlo a Mussolini, era stato allestito il provocatorio Tavolo degli Orrori che metteva alla berlina la produzione dei tromboni del fascismo. Tra questi: Marcello Piacentini, Armando Brasini, Cesare Bazzani. I quali se la legarono al dito e gliela fecero pagare. E difatti Bardi fu considerato antifascista dai fascisti e fascista dagli antifascisti.
Con un marito così ideologicamente ingombrante ed emigrata in un Paese non proprio al centro dei riflettori della critica internazionale, sarebbe stato difficile per qualsiasi donna architetto emergere. E difatti, per molto tempo, Lina Bo Bardi non è stata apprezzata quanto avrebbe meritato, pur essendo in Brasile un mito popolare, conosciuta affettuosamente anche dall’uomo della strada come “Lina”. Salvo poi, con l’esplodere dei gender studies, diventare uno dei principali punti di riferimento delle ricerche dedicate alle donne trascurate in architettura. E così le sono stati dedicati profluvi di articoli, saggi, mostre che hanno illuminato una vita particolarmente operosa e non limitata alle sole tre opere più conosciute: la casa di vetro per sé stessa e il marito (1950-51), il Museo d’arte di San Paolo (1957-1968) e il centro sociale SECS-Pompéia a San Paolo (1977-86).

LA STORIA DI LINA BO BARDI

Lina, nata a Roma nel 1914, aveva mostrato sin da giovane una energia inesauribile. A venticinque anni era stata una delle poche donne a laurearsi in Architettura alla facoltà di Roma, con una tesi alquanto impegnata sul tema della casa per le madri nubili che pare sollecitò lo sgomento di Piacentini, presidente di commissione. Si era poi trasferita a Milano per lavorare insieme a Gio Ponti, un personaggio creativo, ondivago e difficilmente inquadrabile, con il quale conservò per tutta la vita un eccellente rapporto. Lei e il collega Carlo Pagani lo seguono nell’avventura della rivista Stile, che Ponti fonda nel 1941 dopo l’estromissione da Domus. Salvo poi approdarvi come vicedirettori chiamati dall’editore della testata. Lina scrive, inoltre, per periodici generalisti: Tempo, L’Illustrazione Italiana e la rivista femminile Grazia con l’obiettivo di diffondere la cultura dell’abitare promossa dal Movimento Moderno. È, sempre con Pagani, tra i fondatori ‒ il terzo sarà Bruno Zevi ‒ della rivista settimanale, A-Cultura della vita. Dove A sta per attualità, architettura, abitazione, arte (e per Bruno Zevi, in una intervista a Fabrizio Brunetti: amore). Insieme realizzano pochi numeri. L’obiettivo è estremamente ambizioso: un tabloid popolare che parli di architettura. Un sogno distrutto dal moralismo dell’editore Mazzocchi, che Zevi si porterà dietro per tutta la vita. E che ci racconta di Lina Bo Bardi meglio di tanti altri suoi progetti: l’architettura o è di tutti o non è. Il resto sono giochi estetici snervati e senza senso. “Per un architetto” ‒ scriverà più tardi ‒ “la cosa più importante non è costruire bene, ma sapere come vive la maggior parte della gente. L’architetto è un maestro di vita, nel senso moderno di impadronirsi del modo di cucinare i fagioli, di come fare il fornello, di essere obbligato a vedere come funziona il gabinetto, come fare il bagno. Ha il sogno poetico, che è bello, di una architettura che dia un senso alla libertà”.

LE CASE DI VETRO

In questi anni giovanili Lina sviluppa un proprio stile caratterizzato da disegni che focalizzano l’attenzione, più che sullo spazio in sé e per sé, sulla relazione che intercorre tra l’architettura, gli oggetti in essa contenuti, la gente che li fruisce e sul rapporto tra gli interni e l’esterno. Esattamente il contrario dell’arte astratta e carente di vita di numerosi maestri del Movimento Moderno. Ma che tuttavia manifesta una forte inclinazione verso il quasi nulla di ascendenza miesiana. Con la differenza che mentre in Ludwig Mies van der Rohe il vuoto è il cuore simbolico e retorico della costruzione, nella Bo Bardi è il medium per costruire una relazione con l’altro da sé.
Lo si vede chiaramente nella Casa de Vidro che Lina Bo Bardi costruisce a San Paolo. La costruzione è ispirata alle case di vetro che in questi anni si realizzano nel mondo: la Farnsworth di Mies, la Glass House di Philip Johnson e le Case Studies houses, per esempio quella degli Eames. Sospesa su pilastrini circolari esilissimi, è un “quasi nulla” infinitamente disponibile ad accogliere le tracce della vita familiare dei Bo Bardi, i mobili, i quadri e, insieme, la avvolgente vetrata attraverso la quale guardare il panorama. Non tutta la casa è trasparente, la zona notte e le zone di servizio, racchiuse da muri, rispondono ad altre logiche funzionali. Con il risultato che nella Casa de Vidro si respira un’aria di massima libertà e sembra mancare quel compiacimento estetico, quella concezione dello spazio e del particolare costruttivo che, per esempio, rende la Farnsworth una costruzione perfetta ma invivibile. Un minimalismo non teologico che rifiuta di porsi il problema del Dio nascosto nei dettagli e che forse guarda alle laiche trasparenze di Johannes Duiker e Pierre Chareau.

I PROGETTI

Personaggio inesauribile, Lina Bo Bardi sperimenta altre configurazioni nei molti progetti che affronta, tra questi numerosi allestimenti. Prova piante circolari e organiche, affronta la semplicità del quadrato percorso lungo la diagonale, lavora con i materiali di ogni giorno, sfugge dalla facile trappola dell’estetizzazione dei problemi. Tenta la carriera universitaria insegnando tra il 1955 e il 1957 Teoria dell’architettura presso l’università di San Paolo e dal 1958 a Salvator de Bahia Teoria e Filosofia dell’Architettura. Segno che è un personaggio tutt’altro che istintivo o naive. Ad appassionarla è la teoria di Gramsci. L’idea di una prassi che diventi riflessione su sé stessa e che allo stesso tempo non perda mai il rapporto con i fini pratici ed etici che l’hanno generata. Un modo di ragionare sin troppo sofisticato per l’Accademia che, infatti, la escluderà dalla cattedra. Ma che conquisterà intellettuali, artisti, poeti, drammaturghi, cantautori operanti a San Paolo e Bahia che entrano in relazione con la sua opera e le chiedono progetti economici, concreti, efficaci, densi di umanità. Non bisogna dimenticare che nel 1950 Lina fonderà con il marito una rivista dal nome emblematico: Habitat. A testimoniare che se non si cambia l’ambiente di vita a poco servono teorie e ragionamenti astratti. Sarà il marito, che per 45 anni dirigerà il Museo di Arte Moderna di San Paolo, il MASP, a coinvolgerla nel progetto per la nuova sede del museo.

Lina Bo Bardi in Italia. Exhibition view at Maxxi, Roma 2015. Photo Sebastiano Luciano

Lina Bo Bardi in Italia. Exhibition view at Maxxi, Roma 2015. Photo Sebastiano Luciano

A SAN PAOLO

Il progetto inizia nel 1957 in piena stagione brutalista ed è completato nel 1968, un anno prima del concorso per il Centro Pompidou a Parigi. L’opera ‒ una sinfonia alla libertà secondo John Cage ‒ racchiude le due più importanti innovazioni che saranno il vanto del Beaubourg: la grande piazza libera in cui possono svolgersi le più svariate attività, dagli incontri alle feste, e l’estrema flessibilità dello spazio interno. Con la differenza che mentre nell’opera parigina verranno previste pareti mobili (poi eliminate dalla direzione del Centro), in questa brasiliana le pareti non esistono affatto e i quadri sono esposti all’interno di un unico vano espositivo, montati ciascuno su un piedistallo con una base in cemento e un’alzata in vetro trasparente. Altra dimostrazione di quanto utile possa essere il concetto di quasi nulla miesiano, una volta depurato dei suoi presupposti monumentali se non teologici.
Al periodo tra il 1977 e il 1986 risale il recupero del centro sociale SECS-Pompéia a San Paolo.
Il problema principale di Lina Bo Bardi è l’autenticità: la possibilità di dare vita a un complesso tagliato sulle esigenze delle persone, senza le cadute estetizzanti che caratterizzano parte delle architetture di quegli anni. Da qui la scelta di un approccio duro, a tratti brutale consistente nel recupero con mezzi spartani della vecchia fabbrica e la realizzazione di tre torri in cemento a faccia vista. A rendere indimenticabile l’esperienza del SECS sono i percorsi, l’uso del colore rosso, il susseguirsi delle attività e degli episodi spaziali. Alcuni hanno parlato di sensibilità pop. Il termine vale sino a un certo punto se consideriamo lo snobismo di molta arte pop: nel caso della Bo Bardi è assente la dimensione del compiacimento, del finto povero.
Sono numerosi i progetti che la Bo Bardi realizza sino al momento della sua morte, avvenuta nel 1992. Mostre, centri culturali, teatri. Tutti pensati come spazi per mettere in scena con il minimo impegno di mezzi, e cioè con l’economia della vita, la concretezza drammatica dell’esistenza. “L’architettura” ‒ diceva ‒ “è creata, rinnovata ogni volta che c’è una persona che la sperimenta… È la routine dello spazio pubblico che oggi fa dimenticare all’uomo la bellezza naturale del muoversi liberamente”. Credo che non si possa definite l’obiettivo della buona architettura in maniera più intensa e poetica.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Architetti d’Italia #2 – Massimiliano Fuksas
Architetti d’Italia #3 – Stefano Boeri
Architetti d’Italia #4 – Marco Casamonti
Architetti d’Italia #5 – Cino Zucchi
Architetti d’Italia#6 – Maria Giuseppina Grasso Cannizzo
Architetti d’Italia#7 – Adolfo Natalini
Architetti d’Italia#8 – Benedetta Tagliabue
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Architetti d’Italia #13 ‒ Mario Bellini
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Architetti d’Italia #18 ‒ Guido Canali
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Architetti d’Italia #20 ‒ Gianluca Peluffo
Architetti d’Italia #21 ‒ Alessandro Mendini
Architetti d’Italia #22 ‒ Carlo Ratti
Architetti d’Italia #23 ‒ Umberto Riva
Architetti d’Italia #24 ‒ Massimo Pica Ciamarra
Architetti d’Italia #25 ‒ Francesco Venezia
Architetti d’Italia #26 ‒ Dante Benini
Architetti d’Italia #27 ‒ Sergio Bianchi
Architetti d’Italia #28 ‒ Bruno Zevi
Architetti d’Italia #29 ‒ Stefano Pujatti
Architetti d’Italia #30 ‒ Aldo Rossi
Architetti d’Italia #31 ‒ Renato Nicolini
Architetti d’Italia #32 ‒ Luigi Pellegrin
Architetti d’Italia #33 ‒ Studio Nemesi
Architetti d’Italia #34 ‒ Francesco Dal Co
Architetti d’Italia #35 ‒ Marcello Guido
Architetti d’Italia #36 ‒ Manfredo Tafuri
Architetti d’Italia #37 ‒ Aldo Loris Rossi
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Architetti d’Italia #39 ‒ Gae Aulenti
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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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