Architetti d’Italia. Carlo Scarpa, l’inarrivabile

Venerato da generazioni di architetti, Carlo Scarpa è l’emblema di tutto ciò che gli attuali professionisti del settore vorrebbero, ma non possono permettersi di ottenere. Ne parla Luigi Prestinenza Puglisi.

I grandi architetti non si sono mai laureati. Mies van der Rohe, Le Corbusier e Wright non potevano vantare il pezzo di carta. E neanche Carlo Scarpa. A lui la laurea fu assegnata honoris causa nel 1978 ma gli portò male e, prima ancora di riceverla, mentre si trovava in Giappone, scivolò per le scale e perse la vita. L’Ordine professionale, poco più di venti anni prima, cioè nel 1956, lo aveva portato in giudizio, accusandolo di esercitare la professione illegalmente.
Mi piace pensare che, da questa condizione di illegalità, Scarpa non sia mai voluto uscire e che, tuttora, che è apprezzato, amato e venerato come un santo protettore dalla gran parte degli architetti, voglia restare borderline. Nel senso che preferisca rappresentare tutto quello che gli architetti vorrebbero diventare ma non potranno mai essere, perché glielo impedisce proprio una parte rilevante e mai rimossa, una componente della loro stessa formazione.
Carlo Scarpa studiò presso l’Accademia di Belle Arti. La massima parte della sua attività la dedicò all’arte. Quella dalla quale gli architetti vogliono dichiararsi lontani: “Noi a differenza di pittori e scultori non possiamo fare ciò che vogliamo”, come se la assenza dell’utile sia una linea di confine invalicabile dell’universo artistico.
Esercitò il suo talento come direttore creativo della vetreria Venini, attività che lo impegnò dal 1932 al 1946 (dal 1927 al 1930 aveva collaborato con un’altra vetreria) e come curatore dell’allestimento di mostre e di sistemazioni di musei. Pare che con il suo occhio infallibile Wright, in occasione del viaggio a Venezia avvenuto nel 1951, chiese di chi fossero dei vasi esposti e ovviamente erano disegnati da Scarpa stesso. Come curatore di allestimenti ebbe la capacità, ideando sistemazioni spaziali ad hoc, di conferire plusvalore estetico anche a opere molto mediocri, ricreandole. Senza il suo magistrale tocco di allestitore molti pezzi oggi ammirati sarebbero anonimi scartini da collocare in magazzino. E sculture di buon valore, si pensi alla equestre di Cangrande della Scala, esposta all’interno di un percorso scenografico tra interno e esterno del museo di Castelvecchio, senza il tocco scarpiano sarebbero tutt’altra cosa. Come è facile rendersi conto osservando la copia che si trova oggi dove era prima collocato l’originale, cioè nel complesso delle Arche scaligere, sopra la porta settentrionale della chiesa di Santa Maria Antica.

Particolare della galleria dei dipinti di Carlo Scarpa al Museo di Castelvecchio. Courtesy Archivio Carlo Scarpa Museo di Castelvecchio. Photo © Enzo Bassotto

Particolare della galleria dei dipinti di Carlo Scarpa al Museo di Castelvecchio. Courtesy Archivio Carlo Scarpa Museo di Castelvecchio. Photo © Enzo Bassotto

IL NEGOZIO OLIVETTI

Autore di organismi indimenticabili, Scarpa non tollera modifiche, aggiustamenti, tradimenti, neanche minimi. Per alcuni anni il suo negozio Olivetti fu occupato da normali venditori di cianfrusaglie, come ce ne sono mille a Venezia. Il risultato fu apocalittico. Uno dei più bei negozi del mondo, pensato per esporre come gioielli le macchine da scrivere della Olivetti, si trasformò in un becero contenitore kitsch di oggetti ancora più kitsch. Nel senso che, privati dei loro rapporti, i dettagli stessi di Carlo Scarpa erano diventati senza senso, pure decorazioni, sin troppo eccessive.
Ricordo l’accorato appello di Francesco Dal Co sulle pagine di Casabella. Lo storico accusa la miopia dei proprietari e in una intervista del 2009 auspica un “restauro assolutamente conservativo”. Cosa che avviene con riapertura al pubblico il 20 aprile del 2011. Il restauro è eccellente, ma il paziente è deceduto sotto i ferri. Il negozio non può che essere destinato a museo di sé stesso. Destino paradossale per un manufatto di architettura, per di più a carattere commerciale, che appunto si vede trattare come un’opera d’arte da esporre in bacheca. Ma non era stata proprio Casabella, tra le riviste italiane, a prendere le distanze dall’architettura trattata come oggetto d’arte?
Ecco il primo problema che Scarpa pone ai suoi estimatori: una buona opera di architettura non tollera alcuna modifica, non solo delle sue murature, ma anche degli oggetti che in essa vi sono inseriti quali mobili, quadri, merci. Lo spazio della creazione è uno e indivisibile. Cambiare una semplice sedia con un’altra vuol dire riorganizzare la magia, darle un’altra forma. Operazione che certamente si può fare. Ma deve essere lasciata compiere dall’esperto. Né più né meno che se si volesse aggiungere una figurina all’interno di un paesaggio dipinto del Cinquecento o del Seicento.
Si pensi a questo assunto applicato a un museo. Nulla si può toccare. E difatti provate a modificare Castelvecchio o Palazzo Abatellis. Compromettereste irrimediabilmente l’incanto del luogo, così come lo ha compromesso il proprietario venditore di cianfrusaglie che aveva occupato il negozio Olivetti.
Inutile dire che tutto ciò non è oggi possibile. Nessun direttore di un museo accetterebbe un diktat così terroristico. Tanto più che per uno Scarpa grande artista ci sono decine di mediocri esecutori i cui misfatti possono essere occultai proprio facendo girare opere e allestimenti. Scarpa è, insomma, l’unica eccezione che ci possiamo permettere. E in quanto eccezione è mitizzato, sognato, amato. È l’architetto che tutti vorremmo essere ma che purtroppo non potremo mai diventare. Una lontananza diventata, appunto, tanto più luminosa quanto più remota.

Palazzo Abatellis, Palermo. Allestimento e arredamento di Carlo Scarpa

Palazzo Abatellis, Palermo. Allestimento e arredamento di Carlo Scarpa

TUTT’ALTRO CHE PERFETTO

Sarebbe tuttavia un errore storiografico ugualmente grave pensare che Scarpa rappresenti un modello di perfezione compiuta. È noto che non riteneva concluse mai le proprie opere. In fase di progetto e poi di cantiere apportava infinite modifiche. Chiamarlo voleva dire non sapere mai in quali tempi e con quali costi l’opera sarebbe stata licenziata. “Tutto nell’opera è importante” ‒ si potrebbe dire parafrasando una famosa frase della sorella di Ludwig Wittgenstein a proposito della casa disegnatale dal fratello filosofo ‒ “tranne il tempo e il costo”.
Anche in questo caso Scarpa rappresenta, al meglio, proprio il male che gli architetti a parole dicono di maledire. Oggi si direbbe: totale e completa mancanza di affidabilità professionale.
Perché i valori si sono capovolti: i mezzi, cioè il tempo e il denaro, sono diventati il fine, e il fine, cioè la bellezza dell’opera, è venuto a mancare. Naturalmente tutti noi architetti sappiamo che Scarpa ha ragione. Siamo convinti che lo spazio, a partire da quello pubblico, è brutto perché realizzato sulla base di principi che poco hanno a che vedere con la legge dell’arte. Ma non possiamo dirlo, non possiamo permettercelo. Noi non siamo artisti, siamo tecnici. Semmai speriamo di poterlo diventare ma senza pagarne il prezzo. Senza mettere in discussione alcun principio. Anzi accettando che un progetto esecutivo si debba completare in 30 giorni lavorativi e che il budget finale per la costruzione non superi i mille euro al metro quadrato, oneri della sicurezza inclusi. Metaforicamente ogni giorno facciamo causa a Carlo Scarpa perché esercita abusivamente la professione, ma poi rimuoviamo il problema e gli assegniamo la laurea honoris causa perché vorremmo essere come lui.
Scarpa, basta guardare le sue opere, era un ossessivo. Come gli ossessivi sognava di ridisegnare il mondo. Ricordo ancora quanto fui colpito alla Fondazione Querini Stampalia dal disegno degli infissi, dettagliato sino alla vite. Operazione che si sarebbe potuta lasciare in mano a un buon artigiano, senza che diventasse un ulteriore spunto per rifar partire il mondo ex nihilo. Guardare le sue opere arricchisce e, insieme, lascia sfiniti. Ci racconta di un corpo a corpo con la creazione che è la cifra dei grandi geni. Da qui l’inarrivabilità del personaggio. Essere scarpiani non è concesso: c’è posto solo per tragiche se non ridicole parodie. E non parlo solo di aspetti imitativi. Nella stessa Querini Stampalia c’è un intervento di Mario Botta, un architetto che si è dichiarato vicino, pur perseguendo una strada diversa. Cosa dire? Meglio tacere.
Più di tanti maestri, Scarpa è colui contro il quale dobbiamo lottare. Solo così, forse, la sua lezione, la sua immensa lezione, potrebbe giovarci.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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