Architetti d’Italia. Alessandro Mendini, l’animatore culturale

Nuovo episodio della serie dedicata da Luigi Prestinenza Puglisi agli architetti italiani. Stavolta lo sguardo si posa su Alessandro Mendini, sottolineando la vacuità di un confine netto tra architettura e design.

Potremmo sbarazzarci di Alessandro Mendini affermando che è un designer e ha poco a che fare con l’architettura. Mendini ha però costruito edifici di notevole interesse ed è stato direttore di due riviste, Casabella e Domus, che, sotto la sua guida, hanno indirizzato il dibattito architettonico. Da un punto di vista concettuale, inoltre, la suddivisione tra designer di mobili o interni e architetti che progettano edifici non regge. E, difatti, gli anglosassoni adoperano il termine design indifferentemente per indicare il progetto alle varie scale. Noi italiani, che usiamo il termine designer per bollare un architetto come figlio di un dio –quello degli interni ‒ minore, siamo noi stessi che nei fatti rifiutiamo la divisione. Per Carlo Scarpa era indifferente progettare una forchetta o un museo. Antonio Citterio, Michele De Lucchi e Mario Bellini hanno preso le mosse dalla piccola scala per affrontare progetti edilizi sempre più impegnativi. Massimiliano Fuksas realizza sedute, luci e altri oggetti di design. Renzo Piano, focalizzato nei grandi interventi edilizi, non disdegna di tanto in tanto di proporre librerie in cristallo, maniglie o borse a tiratura limitata.
Quando penso a Mendini, mi vengono in mente due progetti terribili e due indimenticabili.
I due terribili sono un tavolino basso di cristallo, sagomato a forma di bara e con dentro una modella nuda giacente, disegnato nel 1975.  Doveva, insieme ad altre opere di contro-design, tra le quali una lampada che non faceva luce, ricordarci del tema che rimuoviamo quando siamo in vita, e cioè la morte. Dichiarazione questa che poneva il progetto oltre l’utile e il piacevole, in una prospettiva asfitticamente concettuale.
Il secondo è il Teatrino di via della Bicchieraia ad Arezzo, all’interno dell’ex convento dei Servi di Maria, completato nel 2000. È un giocattolone postmodernista, uno stile di cui Mendini è stato tra i principali promotori, attrezzato con inusuali sculture a forma di siluro che gli aretini hanno ribattezzato come le supposte d’oro. A testimoniare che il design che vuole essere popolare lo diventa ma secondo direzioni che non sono sempre quelle ipotizzate.

Alessandro Mendini, Shama, 1994 - installazione al Groninger Museum, Groninga - photo Christian Richters

Alessandro Mendini, Shama, 1994 – installazione al Groninger Museum, Groninga – photo Christian Richters

UNA POLTRONA E UN MUSEO

I due progetti indimenticabili sono la poltrona Proust e il Groninger Museum a Groningen.
La prima fu disegnata nel 1978 in pieno clima postmoderno, il museo olandese fu completato nel 1994.
Entrambi sono lavori sui generis. La poltrona è un’opera che oggi si definirebbe di postproduzione. Una seduta in stile Luigi qualcosa, come tante se ne vedono nei mobilifici che vendono paccottiglia finto-antica. Mendini interviene facendo pitturare la cornice in legno, invece che in color d’oro, con una tecnica che ricorda i quadri puntinisti e usando una tappezzeria con gli stessi colori e pattern. Il motivo è probabilmente il tentativo snob di rivalutare il cattivo gusto popolare sovrascrivendo il kitsch con uno ancora più esagerato e, proprio per questo, raffinato. Vi sono, poi, giustificazioni concettuali: l’architetto racconta che ha voluto mettere insieme l’universo nebuloso delle pagine della Recherche di Proust con i quadri di Georges Seurat e Paul Signac operanti approssimativamente negli stessi anni.  Inutile aggiungere che spesso opere così artatamente concettuali diventano dei flop: divertono per qualche giorno per presto stufare. La poltrona Proust, invece, per una strana alchimia, resiste da quarant’anni: forse perché ci comunica un desiderio di rappresentatività e di apparenza che nel nostro intimo coltiviamo. È, infatti, un trono dove sprofondare che ci allontana dalle quotidiane e fastidiose incombenze per svolgere le quali sarebbero molto più indicate le anonime sedie funzionaliste. Vi è, poi, il recupero della storia, giocoso e senza l’insopportabile moralismo che zavorra buona parte della cultura postmoderna italiana. Se Mendini sa essere macabro sino a superare di gran lunga tutti, affrontando con disinvoltura il tema della morte, sa essere scanzonato come pochi altri, mostrandoci un atteggiamento bipolare che, in questa epoca schizofrenica, non può che affascinarci.
Anche il museo di Groningen è un’opera sui generis. A lavorarci sono quattro diversi studi di architettura, ciascuno disegnando un proprio pezzo di edificio che si accosta, non senza dissonanze anche stridenti, agli altri: Michele De Lucchi, Philippe Starck, Coop Himmelb(l)au e, appunto, Alessandro Mendini.  Siamo negli anni del decostruttivismo e l’idea girava nel fervido clima culturale dell’Architectural Association. Rem Koolhaas e Bernard Tschumi, per esempio, lavoravano su aggregati concepiti come sommatorie di parti e non come organismi ben formati.
Ma è Mendini che, coordinando questo museo composito, riesce a mostrare le enormi potenzialità di un approccio libero, paratattico, in cui il concetto tradizionale di Autore, come responsabile formale di un’opera e produttore di sintesi o, per meglio dire, di sintassi compiute, è messo in crisi.
Segno di un approccio disinibito, la parte da lui eseguita nel museo di Groningen è anche indicativa di debolezza. La si misura dalla differenza con le esperienze più interessanti che, in quegli anni, si formano in Europa; per esempio, paragonando il frammento di Mendini con quello di Coop Himmelb(l)au. Il primo, seguendo una tradizione formale tipicamente italiana, lavora per accostamento di volumi, producendo un edificio-oggetto che ricorda un giocattolone, come poi succederà al teatrino in Arezzo. I secondi operano sulle forme con violenza disgregante. È però proprio questo formalismo dilaniante di matrice decostruttivista che permetterà a Coop Himmelb(l)au di ricentrare la ricerca sul tema dello spazio e delle sue percorrenze, organizzando relazioni nuove tra corpo e architettura, e quindi operando un decisivo salto oltre il post modernismo. Operazione che invece sfugge a Mendini, che continuerà a muoversi sempre in bilico tra forme primarie e simbologie radical.

OLTRE I CONFINI DISCIPLINARI

Mendini è stato ed è uno straordinario animatore culturale. Direttore di Casabella dal 1970 al 1976 e di Domus dal 1979 al 1984, ha fondato e diretto la rivista Modo dal 1977 al 1979. È stato ripescato come direttore di Domus nel 2010, dopo la gestione di Stefano Boeri e Flavio Albanese e prima che la rivista fosse affidata a Joseph Grima, producendo una magnifica serie di numeri in cui ha dimostrato una insuperata freschezza concettuale. Lo troviamo da protagonista nelle esperienze più importanti del design radicale: da Global Tools nel 1973 ad Alchimia nel 1977 a Memphis nel 1981. Con Ettore Sottsass, è stato il punto di riferimento di alcuni tra i migliori progettisti italiani, soprattutto milanesi (qualcuno che conosce meglio di me l’argomento dovrà affrontare il discorso sulla milanesità del personaggio). Ha ricevuto due compassi d’oro: nel 1979 e nel 1981.
È anche uno scrittore raffinato che, come tutti gli artisti, ha affermato tutto e il contrario di tutto, attraverso metafore e discorsi a volte dubbiosi a volte apodittici, a volte disperati ma sempre operativi.
Due insegnamenti sono ricorrenti e fondamentali nella sua produzione.
Il primo è che ogni progettista non deve mai sapere se “sta facendo scultura, architettura, pittura, arte applicata, teatro o altro ancora” perché il compito della ricerca è il superamento dei confini e degli steccati disciplinari in un processo di continuo “ruminare delle memoria”. E difatti l’opera di Mendini è sempre oscillante tra l’apertura a suggestioni metafisiche alla de Chirico, in cui un importante ruolo gioca l’oggetto trovato e riproposto, e aperture allo spirito del tempo, visto attraverso occhi alla Depero, cioè appartenenti al Futurismo giocoso più che a quello ultra dinamico ed espressionista.
Il secondo è che la progettazione deve avere sempre a riferimento i grandi temi della vita, amore e morte in primis, anche a costo ‒ come abbiamo visto con la bara in cristallo ‒ di cadere nel baratro del non senso. Perché le nostre attività parlano di noi e la progettazione non è altro che introdurre testimonianze, come ci racconta Mendini, nella “tragicommedia della vita”.

Luigi Prestinenza Puglisi

Architetti d’Italia #1 – Renzo Piano
Architetti d’Italia #2 – Massimiliano Fuksas
Architetti d’Italia #3 – Stefano Boeri
Architetti d’Italia #4 – Marco Casamonti
Architetti d’Italia #5 – Cino Zucchi
Architetti d’Italia#6 – Maria Giuseppina Grasso Cannizzo
Architetti d’Italia#7 – Adolfo Natalini
Architetti d’Italia#8 – Benedetta Tagliabue
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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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