La palazzina di via Campania a Roma fu per me una folgorazione. Mi sembrava un edificio bellissimo, così credevo ai primi anni di università. Ci volle tutta la martellante ideologia della cosiddetta Tendenza, che allora dominava nelle aule della facoltà di architettura di Roma, per farmi cambiare parere. Andavano di moda Aldo Rossi e Giorgio Grassi e lo stesso Vittorio Gregotti era considerato un moderato. E così sciaguratamente arrivai alla conclusione che fosse cattiva architettura, tanto più che si trattava di una palazzina e non di un caseggiato di edilizia popolare. Laureatomi, il problema non me lo posi più, anche perché alla fine degli Anni Settanta gli architetti sostenuti da Bruno Zevi, quali Passarelli, erano caduti nel dimenticatoio. Tutti ‒ da Luigi Pellegrin a Massimo Pica Ciamarra, da Piero Sartogo a Manfredi Nicoletti ‒ stavano in discesa libera, per essere stati portati da un critico considerato alla stregua di un maniaco della simmetria e della dissonanza. Fu nel 1991 che ebbi modo di incontrare di persona Lucio Passarelli, in quanto entrambi eravamo stati nominati membri della Commissione urbanistica del comune di Roma, insieme a Masino Valle, Vanna Fraticelli, Paolo Berdini, Stefano Garano e altri non meno illustri. Era un atto dovuto, si trattava di uno dei più stimati e attivi professionisti della Capitale, quasi settantenne. Credo che fosse in quota democristiana. La mia nomina avveniva, invece, per meriti politici: avevo 35 anni e un curriculum scarno, ma ero uno dei pochi liberali di sinistra sulla piazza. Ricordo che questi incontri alle riunioni non aumentarono affatto la mia stima per l’architetto romano (in realtà si era laureato in ingegneria civile nel 1945 e gli fu consegnata la laurea in architettura honoris causa solo nel 2011).
PRUDENZA E INTEGRITÀ
In commissione urbanistica, come in tutte le altre occasioni in cui poi l’ho incontrato, Passarelli mostrava equilibrio ed estrema moderazione. E, come la maggior parte dei suoi colleghi, non si opponeva, quanto mi sarei aspettato, all’arroganza dell’allora assessore all’urbanistica, che ogni tanto faceva capolino alle riunioni: un ex barbiere, soprannominato Luparetta, della corrente di Sbardella, detto Lo squalo. Il figuro non perdeva occasione per umiliare e minacciare la commissione. Non me ne facevo una ragione. Perché tanti luminari dell’architettura si facevano zittire da un arrogante?
C’è voluto almeno un decennio per ammorbidire il giudizio. Per capire che una delle virtù dei professionisti è la prudenza. Sono i critici che devono prendere posizioni decise. Mentre chi progetta è giocoforza costretto ad assumere posizioni defilate: per un architetto l’integrità è nelle proprie opere più che in qualche battibecco con chi gestisce il potere.
A partire dalla fine degli Anni Novanta ho incontrato di nuovo Passarelli frequentando l’InArch, associazione della quale è stato un socio fondatore e un personaggio di spicco, e ho avuto modo sempre di più di apprezzare le sue doti: oltre l’equilibrio e la prudenza, la capacità di captare dalla realtà esterna le cose migliori. E poi la virtù di saper collaborare con i colleghi più disparati producendo sempre ottimi lavori, sicuramente tra i migliori realizzati nella Capitale. Una dote molto importante negli anni passati, perché gli incarichi pubblici, per motivi politici, erano affidati congiuntamente a numerosi professionisti di orientamento diverso.
LE INFLUENZE
Nessuno di questi ottimi lavori, però, a mio avviso ha raggiunto l’apice della palazzina di via Campania. Ho a lungo cercato di scoprire il segreto di questo edificio. Credo che nasca dalla libertà del montaggio. Nell’aver avuto il coraggio di far incontrare, o forse sarebbe giusto dire scontrare, due linguaggi diversi. Quello asciutto dell’edificio a uffici rivestito da una semplice vetrata continua e quello organico di alcune ville residenziali sovrapposte in tutta libertà, ma anche con la consapevolezza delle molteplici direzioni suggerite dal difficile contesto urbano dominato dalle prospicienti Mura aureliane. Un’operazione raffinata che avrebbe messo in discussione, se perseguita coerentemente, un tipo edilizio, quale la palazzina, particolarmente diffuso a Roma e che ha prodotto, accanto a qualche buon risultato, anche molta edilizia di mediocre livello.
Si possono cercare, nella storia dell’architettura di quel periodo, riferimenti o fonti d’ispirazione. A me piace, per esempio, vedere l’influsso sia pure velato delle architetture di Eero Saarinen e di Kevin Roche. Ma credo che la fonte principale di ispirazione sia stato Bruno Zevi. Le idee della scomposizione, dell’asimmetria, della libertà compositiva, dei piani aggettanti wrightiani, del contrasto tra organico e razionale derivano dal suo insegnamento. Passarelli fu particolarmente bravo nel trasformare in buona architettura principi che, in mani inesperte, avrebbero potuto diventare anche ridicoli e paradossali, anzi nel manifesto di un’architettura possibile da percorrere con determinazione e coraggio. Zevi fu tanto entusiasta dell’opera da dedicargli ampio spazio, sino a pubblicarla, a distanza di alcuni decenni, nella sua Universale di Architettura accanto ai più grandi capolavori contemporanei. Inutile dire che tanto entusiasmo non fece bene alla fortuna critica dell’opera, che fu ostracizzata e non poco dalle correnti anti-zeviane che a partire dagli Anni Ottanta acquisteranno un ruolo egemone nella critica di architettura. All’inizio di questo scritto ho già accennato al giudizio critico della Tendenza.
PASSARELLI E ZEVI
Il rapporto tra Passarelli e Zevi fu particolarmente proficuo: i due, oltre che all’InArch, lavorano insieme, a partire dalla fine degli Anni Sessanta, allo Studio Asse, con un progetto per il Sistema Direzionale Orientale di Roma a cui parteciperanno Vincio Dellani, Mario Fiorentino, Riccardo Morandi, Fausto e Vincenzo Passarelli e Ludovico Quaroni.
Sono convinto che l’ispirazione zeviana stimolò diverse altre opere coraggiose. Mi piace pensare che l’entusiasmo formale del critico riuscì a forzare il rigore di un architetto altrimenti portato verso schemi più semplici e brutalisti.
A influenzare positivamente Passarelli non fu solo Zevi. Come accennavo, ha partecipato a numerose opere a più mani e in ciascuna di esse, oltre a cogliersi motivi ricorrenti e personali, si intravedono nuovi temi e nuovi influssi introdotti dalla collaborazione con gli altri partner o, più semplicemente, dalla necessità di aderire al tema e alle preferenze dei committenti. In questo senso Passarelli è stato un professionista in senso pieno: non attaccato a uno specifico linguaggio e a un repertorio di segni consolidati. Può essere interessante sfogliare la monografia che Ruggero Lenci ha dedicato all’opera dello studio, osservando come i lavori di Lucio, cioè la gran parte di quelli disegnati da una famiglia di architetti a lungo attiva nella Capitale, si muovano sempre lungo più registri. Insomma, c’è non poca differenza tra l’ampliamento dei Musei Vaticani, gli edifici per le scuole cattoliche quali il Massimo, l’hotel Sheraton, le case popolari a Vigne Nuove, il palazzo dei Congressi di Riccione. Pur avendo realizzato un centinaio di opere importanti nella sola Capitale, è difficile individuare ‒ e non solo perché Roma è una metropoli che assorbe tutto ‒ un segno lasciato nella immagine della città.
Passarelli concepiva i disegni come strumenti per il cantiere. E poco si curava della documentazione fotografica. Per apprezzarlo occorre visitare gli edifici. Può essere occasione per un tour romano che, sono sicuro, mostrerebbe cosa avrebbe potuto essere questa martoriata città se solo si avesse avuto un occhio di riguardo, non dico alla contemporaneità, ma al suo migliore professionismo.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi