Architetti d’Italia. Antonio Citterio, l’essenziale

Cinque storie, un solo protagonista. Luigi Prestinenza Puglisi descrive l’opera di Antonio Citterio, fra architettura e design.

Ho rimandato, settimana dopo settimana, e adesso siamo quasi a tre anni, l’argomento Antonio Citterio. Non certo per mancanza di stima del personaggio, che reputo eccellente. Ma perché mi si intrecciavano cinque storie che non riuscivo, e tuttora non riesco, a dipanare. Motivo per il quale, per evitare di procrastinare all’infinito l’appuntamento con uno dei più interessanti architetti della scena italiana, ho deciso di buttare giù queste cinque storie senza un filo conduttore unitario.
La prima riguarda Patricia Viel. Socio dello studio, tanto fondamentale che, per un po’ di tempo, avevo pensato di dedicare a lei il profilo. Sarebbe stato un risarcimento simbolico alle donne architetto che fanno la fortuna di attività professionali gestite da un protagonista uomo che ha maggiore notorietà mediatica. Non me la sono sentita. Perché lo studio Antonio Citterio Patricia Viel, nonostante riconosca anche nel nome l’apporto paritario dei due partner, alla fine è pur sempre centrato sulla figura di Antonio Citterio. E la straordinaria bravura della Viel consiste non poco nella sua abilità di stare un passo indietro, valorizzando la fama internazionale del socio, ottenuta attraverso memorabili oggetti di design.

DESIGN E ARCHITETTURA

La seconda storia riguarda il rapporto design-architettura. Citterio, dicevamo, è noto internazionalmente per il design di oggetti, molti dei quali esposti nei grandi musei. Ma che, come altri protagonisti di primo piano di questa disciplina ‒ penso per esempio a Mario Bellini, a Michele De Lucchi o a Piero Lissoni ‒, si sente in cuor suo architetto. E, coerentemente, persegue un approccio al design tutto interno alla pratica della costruzione dell’habitat, cioè proiettato più sulla dimensione funzionale e spaziale che su quella artistica o ludica. Insomma, per dirla con una battuta: un design impregnato d’architettura in cui, anche quando si progetta il cucchiaio, si ragiona sulla città.
Viene così il sospetto che per questi personaggi la scelta di dedicarsi al design sia stata determinata, oltre che da uno specifico talento, da una strategia di affermazione professionale; insomma, sia stata funzionale all’ottenimento di una notorietà nazionale e internazionale che poi ha permesso di passare agli edifici. Una mossa efficace per emergere in un Paese come l’Italia, molto avaro di soddisfazioni architettoniche. E che offriva e tuttora offre poche altre alternative. Quali la fuga all’estero, per esempio a Parigi, come è accaduto con Massimiliano Fuksas e Renzo Piano. Oppure il coinvolgimento attivo nella politica, come è avvenuto, per esempio, con i socialisti pre-tangentopoli che avevano assoldato professori del calibro di Paolo Portoghesi o con il partito comunista degli intellettuali impegnati tra gli scranni di Montecitorio e le sdraio di Capalbio.

Antonio Citterio. Photo © Stefano Ferrante

Antonio Citterio. Photo © Stefano Ferrante

UNA QUESTIONE DI ABBIGLIAMENTO

La terza storia l’avrei voluta chiamare le polo di Citterio. Fateci caso: Citterio indossa quasi sempre polo chiare, sotto una giacca leggera. D’estate di cotone, d’inverno di lana. Sui vestiti degli architetti prima o poi qualcuno dovrà scrivere un libro. Ci accorgeremmo che delle loro visioni architettoniche ci raccontano di più maglie, giacche e stivaletti che tanti concept, a volte fantasiosi e irreali se non demenziali, sparati per fare sensazione. In questo libro ci sarebbe posto per le maglie nere alla Armani indossate da Massimiliano Fuksas o da Ricardo Scofidio, per i vestiti punk di Odile Decq, per gli stivaletti texani in pitone di Daniel Libeskind, per i verdi acidi, gli aranci luminosi e gli azzurri sparati delle camicie, dei pantaloni e delle bretelle di Richard Rogers, per le lise giacche classiche e fuori moda di Renzo Piano e, sicuramente, per le polo sempre ineccepibilmente stirate di Antonio Citterio. Raccontano ‒ e, a mio parere, perfettamente ‒ un atteggiamento elegante e minimalista. Di chi porta la giacca senza cravatta e per questo evita le camicie sbottonate che denuncerebbero un personaggio eccessivamente informale e quelle senza colletto, che gli conferirebbero un’aria da guru mediorientale, alla Battiato, per capirci.

IL DESIGN COME SFONDO

La quarta storia la chiamerei del design come sfondo. In cui la durata del successo di un oggetto o di un edificio si misura dalla capacità di essere discreto. Che appare esistere, per così dire, da sempre. Rimasi colpito, più di una decina di anni fa, quando stavo scrivendo una monografia sul suo lavoro pubblicata da Edilstampa (2005), dal fatto che Citterio, autore di molti oggetti di design ispirati, forse sin troppo, all’eleganza miesiana, mi raccontasse dell’importanza che a un certo punto della sua vita professionale avevano avuto gli arredamenti di case fatti con mobili comprati nei negozi di seconda mano e delle cucine composte mettendo insieme elettrodomestici diversi, oggetti essenziali ma non di design, luci industriali. E delle opere di Herzog & de Meuron, che verso la metà degli Anni Ottanta utilizzavano per la costruzione degli stabilimenti della Ricola banali palanche in legno appena sbozzate, muovendosi anch’essi nella direzione di un recupero della semplicità e dell’autenticità.

Antonio Citterio Patricia Viel, Bulgari Resort Dubai, 2017. Photo Leo Torri

Antonio Citterio Patricia Viel, Bulgari Resort Dubai, 2017. Photo Leo Torri

PROGETTARE IL LUSSO

La quinta storia ha a che vedere con Citterio progettista delle case, degli alberghi e dei negozi di protagonisti del mondo del lusso. Con un atteggiamento che rifiuta gli inutili barocchismi e il super kitsch di approcci, per capirci, alla Versace o alla Dolce & Gabbana e, dall’altro lato, diffida dagli intellettualismi alla Prada e alla Rem Koolhaas. Le opere che escono dallo studio Antonio Citterio Patricia Viel sono sempre misurate, anzi si può dire che perseguono il lusso proprio attraverso la rivendicazione della loro perfetta essenzialità. Un minimalismo giocato sulla qualità dei materiali, sul buon funzionamento dei meccanismi, sulla ricercatezza dei dettagli. Lontano dal less anoressico di scuola giapponese, quello per capirci alla SANAA, in cui il quasi nulla serve a introdurre un mondo immateriale e astratto, sospeso tra la fantasia e la realtà. E lontano dallo snobismo alla John Pawson, in cui effetti particolarmente sofisticati servono a esaltare un calvinismo elitario, che si permette le privazioni ma da ricco che gode quando la materia si forza sino al limite del possibile e senza badare ai costi.
Ho ricordato nel profilo numero sei di questa grande serie, dedicato a Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, l’incontro della progettista siciliana con Patricia Viel e Teresa Sapey avvenuto a Selinunte. E la immediata simpatia e insieme sfida che si generò tra Patricia, progettista di successo di opere milionarie, e Maria Giuseppina, progettista rigorosa sino al disegno della vite, con una clientela ridottissima, meno danarosa ma non meno sofisticata. Fu un incontro, anzi uno scontro, tra giganti, anzi tra gigantesse. Ed è un cruccio non poter riuscire a restituire parole e sguardi di quel momento.

LA SOSTENIBILITÀ

Ho sentito Antonio Citterio recentemente, per una intervista sul tema della sostenibilità, un tema sul quale lo studio milanese negli ultimi anni sta lavorando con sempre maggiore attenzione. Gli oggetti devono essere progettati pensando alla loro morte, al momento in cui non saranno più utilizzati. Il problema non è infatti che assomiglino a organismi biologici, ma che si comportino come tali. Ciò vuol dire che il minimalismo non è uno stile, è una disciplina, un modo che abbiamo di porci rispetto alle cose. È questo il lusso che forse dovremmo assimilare e fare nostro. Perché probabilmente l’ecologia è un maggior costo, ma è il costo per vivere bene.
Non sono un ingenuo e immagino che dietro queste parole vi sia, oltre a un convincimento, anche una strategia di collocazione commerciale in un mercato che richiede una sempre maggiore consapevolezza ecologica. Devo però dire che, di fronte a tanti progettisti che ti ubriacano parlandoti di verde, morfogenesi, impronta ecologica, resilienza e neo antropocene, queste semplici parole sul saper progettare la scomparsa degli oggetti mi hanno fatto piacere. E convinto che ancora ha senso l’ipotesi che bisogna continuare a progettare il più attraverso il meno.

‒ Luigi Prestinenza Puglisi

LE PUNTANTE PRECEDENTI

Architetti d’Italia #1 – Renzo Piano
Architetti d’Italia #2 – Massimiliano Fuksas
Architetti d’Italia #3 – Stefano Boeri
Architetti d’Italia #4 – Marco Casamonti
Architetti d’Italia #5 – Cino Zucchi
Architetti d’Italia#6 – Maria Giuseppina Grasso Cannizzo
Architetti d’Italia#7 – Adolfo Natalini
Architetti d’Italia#8 – Benedetta Tagliabue
Architetti d’Italia#9 – Michele De Lucchi
Architetti d’Italia#10 – Vittorio Gregotti
Architetti d’Italia#11 – Paolo Portoghesi
Architetti d’Italia#12 – Mario Cucinella
Architetti d’Italia #13 ‒ Mario Bellini
Architetti d’Italia #14 ‒ Franco Purini
Architetti d’Italia #15 ‒ Italo Rota
Architetti d’Italia #16 ‒ Franco Zagari
Architetti d’Italia #17 ‒ Guendalina Salimei
Architetti d’Italia #18 ‒ Guido Canali
Architetti d’Italia #19 ‒ Teresa Sapey
Architetti d’Italia #20 ‒ Gianluca Peluffo
Architetti d’Italia #21 ‒ Alessandro Mendini
Architetti d’Italia #22 ‒ Carlo Ratti
Architetti d’Italia #23 ‒ Umberto Riva
Architetti d’Italia #24 ‒ Massimo Pica Ciamarra
Architetti d’Italia #25 ‒ Francesco Venezia
Architetti d’Italia #26 ‒ Dante Benini
Architetti d’Italia #27 ‒ Sergio Bianchi
Architetti d’Italia #28 ‒ Bruno Zevi
Architetti d’Italia #29 ‒ Stefano Pujatti
Architetti d’Italia #30 ‒ Aldo Rossi
Architetti d’Italia #31 ‒ Renato Nicolini
Architetti d’Italia #32 ‒ Luigi Pellegrin
Architetti d’Italia #33 ‒ Studio Nemesi
Architetti d’Italia #34 ‒ Francesco Dal Co
Architetti d’Italia #35 ‒ Marcello Guido
Architetti d’Italia #36 ‒ Manfredo Tafuri
Architetti d’Italia #37 ‒ Aldo Loris Rossi
Architetti d’Italia #38 ‒ Giacomo Leone
Architetti d’Italia #39 ‒ Gae Aulenti
Architetti d’Italia #40 ‒ Andrea Bartoli
Architetti d’Italia#41 ‒ Giancarlo De Carlo
Architetti d’Italia #42 ‒ Leonardo Ricci
Architetti d’Italia #43 ‒ Sergio Musmeci
Architetti d’Italia #44 ‒ Carlo Scarpa
Architetti d’Italia #45 ‒ Alessandro Anselmi
Architetti d’Italia #46 ‒ Orazio La Monaca
Architetti d’Italia #47 ‒ Luigi Moretti
Architetti d’Italia #48 ‒ Ignazio Gardella
Architetti d’Italia #49 ‒ Maurizio Carta
Architetti d’Italia #50 ‒ Gio Ponti
Architetti d’Italia #51 ‒ Vittorio Sgarbi
Architetti d’Italia #52 ‒ Fabrizio Carola
Architetti d’Italia #53 ‒ Edoardo Persico
Architetti d’Italia #54 ‒ Alberto Cecchetto
Architetti d’Italia #55 ‒ Fratelli Castiglioni
Architetti d’Italia #56 ‒ Marcello Piacentini
Architetti d’Italia #57 ‒ Massimo Mariani
Architetti d’Italia #58 – Giuseppe Terragni
Architetti d’Italia #59 – Vittorio Giorgini
Architetti d’Italia #60 – Massimo Cacciari
Architetti d’Italia #61 – Carlo Mollino
Architetti d’Italia #62 – Maurizio Sacripanti
Architetti d’Italia #63 – Ettore Sottsass
Architetti d’Italia #64 – Franco Albini
Architetti d’Italia #65 – Armando Brasini
Architetti d’Italia #66 – Camillo Botticini

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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